· Città del Vaticano ·

L’immagine ecclesiale e l’immagine pubblica del sapere della fede

Bastioni da abbattere
o ponti da costruire?

 Bastioni da abbattere  o ponti da costruire?  QUO-102
07 maggio 2021

Pubblichiamo stralci dell’intervento tenuto da uno dei relatori del webinar «Oggi e domani. Immaginare la teologia» che si è tenuto lo scorso 5 maggio a Roma, al Pontificio Istituto teologico Giovanni Paolo II, su iniziativa della Cattedra Gaudium et spes.

Non so dire quale futuro avrà la teologia che noi pratichiamo. E per essere sincero, mi domando persino se essa avrà realmente un futuro. Intendiamoci, la sua pratica attuale non manca di giustificazione e merita ogni impegno. Però, al di là della retorica d’ufficio, non possiamo non domandarci per quanto tempo potremo ancora sopportare l’enorme scarto fra le energie profuse e gli effetti desiderati.

Nella comunità cristiana come anche, rispettivamente, nella società civile, la teologia è praticamente senza peso. In entrambe, sia pure con le debite differenze, la dichiarazione di non voler aver nulla a che fare con la teologia dei teologi, sia pure accompagnata da un tratto puramente esteriore di umiltà e di rispetto, suona come un crisma di attendibilità, e rispettivamente di autenticità, della testimonianza della fede. La fede non è un’ideologia, non è una teoria, non una morale, non è una politica, ripetono tutti. In questo senso, i più coraggiosi aggiungono: non è neppure una teologia. Capita in effetti, non raramente, che gli stessi teologi di professione adottino questa retorica, precisamente per segnalare la loro intenzione di proporre un pensiero della fede che non vuole essere ricompreso dentro gli schemi della teologia di scuola: passata o presente che sia.

Naturalmente, tutto questo ha una sua essenziale verità: la fede non è una teoria. Il lato paradossale del puntiglio di queste esclusioni però è sotto i nostri occhi: la fede non è un’ideologia, ma abbiamo un autorevole Catechismo della dottrina cattolica, che espone ordinatamente e sistematicamente, in centinaia di pagine le linee maestre dell’ortodossia della fede. La fede non è una morale, certo, ma la stragrande maggioranza dei conflitti di intepretazione sui quali si decide la coerenza della fede sono questioni morali. La fede non è una politica, naturalmente: rimane il fatto che il profilo della presenza cristiana che accredita — e provoca — universalmente la vitalità della fede nella sfera pubblica, non sono le celebrazioni della sacra liturgia, ma le pratiche della carità sociale.

Il disinnesco della fede dagli equivoci di questi paradossi — chiamiamoli così — sarebbe un compito della teologia. Dove appare il paradosso di tutti i paradossi. La fede non è una teoria, ma la teologia lo è. Se la scena della teologia non fosse oggi tumultuosamente oscurata — e persino occupata — dai blog dei dilettanti allo sbaraglio e dalle veline delle tifoserie di partito, si potrebbe forse riaprire lo spazio di una domanda importante, oggi sostituita da risposte che la ignorano.

Fede e pensiero: l’antinomia e il paradosso


La fede non è una teoria: la sua rivelazione non ha questa forma, il vangelo non ha questa origine. Eppure, la fede in Gesù Cristo ha aperto, proprio nella storia del logos umano, la via di un pensiero che, quando perde la ragione, perde anche la fede. Esiste nella teologia attuale lo spazio fondativo di questa domanda radicale, che cerca il fondamento del cristianesimo storico nella antinomia di questa fede pensante? Il vangelo di Gesù annuncia l’avvento del regno di Dio nella vita del mondo, insiste sulla necessità di volere liberamente questo avvento prima di ogni altra cosa, istituisce il suo discepolato come testimonianza della reale possibilità di sperimentare la sua realtà. Il nomos della religione (la legge, il culto, la comunità), così come l’intero logos della vita (il padre la madre, la società e i beni lavoro e i beni) sono posti in una epoché — uno stato di sospensione, un “come se” — che impone di verificare sempre di nuovo la loro capacità di ospitare questo fondamento non religioso e non ideale del senso della storia e della realtà del mondo, che nasconde e rivela il segreto dell’intimità di Dio.

L’evento fondatore di questa rivelazione la porta in campo con la lingua delle parabole, che lo rendono enigmaticamente decifrabile soltanto nelle pieghe della vita quotidiana della condizione umana che è comune. Queste parabole resistono alla costruzione di un sistema religioso che le sostituisca. (...)

Esiste una teologia all’altezza del fondamento antinomico del pensiero credente, impegnato ad abitare con identico spirito e verità il culto e la cultura: senza separarli, senza risolverli l’uno nell’altra? Esiste una teologia della creazione all’altezza della rivelazione del corpo del Signore e della sua redenzione ad opera dello Spirito? Come si produce — e come si legittima — la straordinaria affinità del logos della fede e del logos del pensiero, che si sviluppa senza soluzione di continuità nei luoghi bassi e nei luoghi alti del pensiero della polis, ovunque si formino “i paradigmi del pensiero” che orienta e discerne gli affetti capaci di prossimità fra gli uomini, e ovunque si sviluppi l’umana “coscienza del senso” dell’origine e della destinazione dell’agape di Dio per l’uomo?

La depressione, la conversione, la ripresa


Il legame cristologico ed ecclesiale del culto e della cultura, come asse portante della trascendenza dello spirito destinato ad abitare e a riscattare il corpo, è un inedito: religioso è umano. L’abbattimento di questo bastione, la costruzione di questo ponte, è un rischio assoluto. Impossibile pensare di essere all’altezza di questo impossibile di Dio. Eppure, senza questa impossibile testimonianza, la fede non è trovata e la ragione è perduta.

La nostra teologia ha un’epistemologia che illumina questo antinomico fondamento della fede? Lavora su questo crinale mondano della ragione? Oppure si limita a indicare l’istituzione ecclesiale e la tradizione teologica come referente di una lingua autoreferenziale che vorrebbe anche, per ciò stesso, essere universale? E la Chiesa è all’altezza di questa teologia? La cerca veramente? Una teologia fondata sulla intelligibilità commossa e commovente di questa antinomia, iscritta nella storia degli effetti del fondamento che né la religione né il pensiero avrebbero potuto porre, ha un destino nel kairos dell’epoca appena iniziata? Restituirà alla Chiesa il suo ruolo di mediazione impossibile all’uomo e possibile a Dio, bella e fragile nella sua ostinata professione di non sostituzione del corpo del Signore, servizievole e non servile nei confronti della comunità umana? Restituirà al mondo la passione di uno sguardo sul mondo dal punto di vista della redenzione sperata e della prossimità mancata — l’unico punto di vista degno dell’eterno — che solo le vittime della nostra follia avranno titolo per giudicare?

Esiste troppa teologia senza vero destinatario, nella Chiesa. E troppi destinatari senza vera teologia, nel pensiero nella nuova città secolare dell’età secolare. La teologia ecclesiastica si occupa eccessivamente di sé stessa e si intrattiene con l’infinito racconto del suo pensiero, della sua storia, del modo in cui si è formata, dei suoi beni e dei suoi ornamenti. La sua stessa realtà, ora, mostra di non essere neppure all’altezza di tale ricchezza — vera o presunta: e il suo racconto, per quanto ora rivisitato con mille espedienti retorici di ringiovanimento, non fa nessun effetto.

La teologia muove le labbra, riempie le pagine, ma è come se non avesse voce. Indica la Chiesa come referente del mistero, ma essa stessa dice che dovrebbe essere diversa da come appare per corrispondervi in modo immediato, trasparente, eloquente: per gli stessi credenti. In questo punto esatto vorrei inserire il primo innesco dialettico della mia provocazione. L’autoerefenzialità della Chiesa, che la ha adottato come referente di esperienza e di concretezza del realismo della fede, è stata aggravata — in certo modo involontariamente — fino a un punto di crisi proprio dal rinnovamento epistemologico che doveva liberarne la trasparenza intellettuale e l’esperienza concreta.

La teologia ha abbracciato convintamente l’autoreferenzialità della fede nel momento in cui si è definita essenzialmente come auto-comprensione della propria fede. In un quadro epocale in cui l’auto-comprensione della propria esperienza si è avviato a diventare un principio di autoreferenzialità inoltre passabile del pensiero a riguardo della verità e del senso, la formula teologica non poteva che essere declinata come opinione privata. La teologia è la fede che parla di sé, la scelta di un punto di vista, il pensiero di uno stato di vita. Qualsiasi cosa arrivi dopo — la testimonianza, la trascendenza, l’ineffabilità di Dio, l’irruzione dell’Altro — è destinata a rimanere rigorosamente interna a quella struttura auto-referenziale della soggettività. Né vale, a neutralizzare questa impenetrabile chiusura, il disperato ritorno a un improbabile oggettivismo che le sia estraneo e perciò immune: le ragioni del suo superamento, che ha preso atto della sua irricevibile estraneità all’esperienza reale del senso, rimangono valide. Lamentarsi è sterile. Una fede che pensa di possedere in proprio la verità di tutti, in un modo che non è accessibile a nessun altro, se non accetta prima di identificarsi con essa, deve necessariamente annunciare sé stessa. Coltiverà esclusivamente il linguaggio che la conferma nella propria identità. E finirà per parlare soltanto a sé stessa: quello che sta accadendo ora.

di Pierangelo Sequeri