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Sulla propria pelle

olycom - weil - NELLA FOTO RETRO DEL 1936 SIMONE WEIL
29 maggio 2021

La lezione di Simone Weil che ha fatto coincidere il pensiero con l’azione


È una figuretta fatta di triangoli, Simone Weil, a Marsiglia nel 1941, uno per il viso, con i due cerchi degli occhiali a interrompere gli spigoli, e un altro, capovolto, il triangolo della cappa di lana. Ha un’espressione difficile da decifrare, all'incrocio fra l’investigazione e la preghiera. Durante la sua vita, a parte pochi - intellettuali, militanti politici, operai, studentesse - che avevano imparato a stimarla, era percepita come una creatura improbabile, lontana dai canoni, incurante dei doveri che il suo sesso e il suo ceto richiedevano, incontrollabile per le autorità, troppo rigida per i compagni di strada, per molti risibile.

A Marsiglia, nella Francia di Vichy, stato satellite del reich tedesco, si trovava con i genitori, in fuga dalla Francia occupata dai nazisti. A quel tempo era già stata, come scrive, “presa da Dio” ed era già in corrispondenza con padre Perrin, al quale si deve la pubblicazione delle lettere e dei suoi ultimi scritti (in italiano Attesa di Dio, obbedire al tempo, a cura di J.-M. Perrin, Rusconi 1996).

Era nata a Parigi nel 1909 da una famiglia di ebrei colti, benestanti e non religiosi. Per via del lavoro del padre, lei e suo fratello André si erano trovati a viaggiare molto, avevano studiato per lo più in famiglia, risultando in molte materie più avanti degli studenti delle scuole regolari. Fin da bambina Simone era consapevole di avere nella sua nascita benestante un privilegio, e questa consapevolezza, l'implicita ingiustizia che rivelava, l'aveva segnata in profondità. Quando sulla sua strada incontrerà San Francesco, ne sentirà la forza; sarà proprio a Santa Maria degli Angeli, nella primavera del 1937, durante un viaggio in Italia, che sperimenterà uno di quelli che considera i suoi incontri con Dio: sentirà per la prima volta nella sua vita l'obbligo di inginocchiarsi.

Come racconta nella voluminosa biografia, l'amica Simone Pétrement (La vita di Simone Weil, Adelphi 2010), sin dai suoi prima anni di insegnamento Simone Weil rifiutava di riscaldare la sua stanza perché non sopportava di vivere in una condizione migliore di quella dei disoccupati, lavorava al freddo anche se la temperatura andava sotto lo zero, e probabilmente questa scelta, protratta nel tempo, ebbe il suo ruolo nell'insorgere dei suoi tremendi mal di testa. Non dava peso alla propria sofferenza, l'ingiustizia che subiva non le sembrava degna di considerazione, quella che pesava sugli altri invece produceva in lei un dolore infinito. Ha a che fare con questo forse il suo rifiuto a essere femminista, il sorvolare del tutto, nel manifestare ammirazione per il mondo greco, sulla condizione di oppressione delle donne, affrontando invece con lucidità il tema della schiavitù antica: difendere sé stessa le era intollerabile. Prossima all'estrema sinistra nella sua giovinezza, dal giorno in cui accompagnò un gruppo di disoccupati a reclamare migliori condizioni di vita presso il comune a Le Puy, dove insegnava, si avvicinò al sindacato, che la metteva in contatto con gli operai. Fu sempre lucidissima sugli orrori dell'Unione Sovietica, e dibatté anche con Trotzkij, che ospitò, come tanti altri conosciuti e sconosciuti in fuga, nella casa dei suoi genitori. E poi studiava e insegnava, filosofia, scienze, matematica, letteratura.

Nelle lettere a padre Perrin racconta del pericolo che era per lei ogni ritualità comunitaria: "Sono — scrive — per naturale disposizione molto influenzabile. Se in questo momento avessi davanti a me una ventina di giovani tedeschi che cantano in coro inni nazisti, so che una parte della mia anima diventerebbe immediatamente nazista". Era assetata di comunità e sapeva che ogni adesione identitaria poteva farle perdere lucidità, non voleva che la Chiesa l'attraesse in quel modo. Aveva un senso dei simboli intensissimo. Simone Pétrement racconta come più volte, durante le manifestazioni, cercasse di impadronirsi della bandiera rossa e la sventolasse felice come una ragazzina.

L'esperienza del lavoro in fabbrica, cercata con ostinazione, porterà a maturazione alcune idee sulla relazione fra l'essere umano e le macchine, sulla disumanità della vita operaia asservita a ritmi non umani, deprivata della consapevolezza del lavoro e dei suoi esiti, annichilita nella possibilità del pensiero e in cui il rapporto fra chi esegue e chi comanda diventa giocoforza autoritario, cieco, distrugge l'iniziativa. Per lei, fisicamente molto debole, tormentata dai mal di testa, è un'esperienza atroce; ma l'azzeramento di ogni segno di prestigio, di ogni protezione, è quello che va cercando. La riconosce: è la condizione della schiavitù. Ma è solo lì che la benevolenza, la solidarietà, non indotte da moventi paternalistici o sociali, esistono con la loro forza vera.

In Portogallo, in un paesino di pescatori, si trova davanti alla festa del santo patrono, quando ascolta le mogli dei pescatori che cantano "canti senza dubbio molto antichi, di una tristezza straziante" ha "la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, e io con loro".

Dall'esperienza della fabbrica l'intollerabilità dell'essere preservata mentre altri restano nella sofferenza si fa totale. Nelle lettere a padre Perrin che le indica la via del battesimo, scrive: "quando mi rappresento concretamente, e come evento che potrebbe essere prossimo, l'atto che mi introdurrebbe nella Chiesa, nulla mi rattrista più del pensiero di separarmi dalla massa immensa e sventurata dei non credenti". Salvarsi, lasciando dietro di sé degli esclusi, è al di là delle sue possibilità. Simone Weil affronta con padre Perrin la questione che aveva posto anche Teresa Di Lisieux, la questione della salvezza di chi resta fuori, dei non toccati dalla fede o dalla predicazione. Non può fare a meno di nominare con sconcerto la violenza delle crociate, l'inquisizione, reclamando una presa di posizione della Chiesa, che arriverà solo con il tempo. Per via dell'odio che porta contro la violenza, il cristianesimo di Simone Weil rifiuta la radice veterotestamentaria. La lettura dell'Antico Testamento le risulta atroce, le violenze che vengono narrate sono del tutto intollerabili per la sua idea di Dio. Nel suo pensiero dell'Antico Testamento, nell'estremo senso di lontananza nei confronti della cultura ebraica contrapposta alla greca, sembra che Simone Weil soffra di una forma di letteralismo, che pecchi di scarso senso della storia. Sembra che giudichi il passato e ogni cultura sulla base di un metro rigidissimo formato nel suo presente e lanciato verso il futuro. Lo stesso inflessibile giudizio Weil lo applica alla civiltà romana e al suo impero, condannati senza scampo, ad esclusione degli amatissimi stoici. Nelle sue rigidità, merita da parte nostra una comprensione maggiore, un giudizio più accogliente del suo. Chissà dove l'avrebbe portata il pensiero se non fosse morta il 24 di agosto del 1943, ad Ashford in Inghilterra, di tubercolosi e di inedia, dopo aver inutilmente cercato di fare la sua parte, purché rischiosa, nella guerra antinazista.

La serietà con cui Simone Weil affronta la vita non può far scordare la comicità con cui la sua figuretta magra e imbranata calca la scena del mondo, una specie di Charlot femmina (aveva amato moltissimo Tempi moderni), che nella vita quotidiana esce con il maglione al contrario, e in Spagna, dove va per combattere, revocando il suo pacifismo in nome della battaglia antifascista, non riesce a inforcare un fucile, ma finisce per entrare in una pentola d'olio bollente e per essere così rimpatriata (soffrirà a lungo delle ferite). C'è in lei un gusto della risata che si sposa bene con il suo senso della giustizia, si diverte a osservare le ire dei presidi con cui lavora, dei prefetti, dei giornalisti ostili, ne ride di gusto e senza acredine; c'è un umorismo poi che condivide con la sua famiglia. Scrive da Marsiglia al fratello, che in fuga dalla shoah è riuscito ad approdare negli Stati Uniti: "Ci piace immaginarti mentre inzuppi grosse tartine imburrate nella cioccolata e intanto versi grosse lacrime pensando a noi. Non confesserai mai le grosse lacrime, ma siamo persuasi che le versi e quest'idea ci fa ridere molto".

La storia di Simone Weil non regge l'agiografia; e perché dovrebbe? Poche storie la reggono. Ma la serietà senza cupezza che è il suo modo di stare al mondo, la radicalità con cui sceglie la parte degli esclusi, l'importanza del suo pensiero quando ragiona dell'organizzazione del lavoro o dei doveri verso la persona umana, ce la rendono vicina, commovente e necessaria.

di Carola Susani