· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
Emergenza alimentare nell’Africa occidentale e centrale

Fame di giustizia

Una donna con il suo bambino in un villaggio del Kenya
30 aprile 2021

La notizia è di qualche giorno fa: i ministri delle finanze e i governatori centrali delle prime venti economie del mondo si sono accordati sulla sospensione dei pagamenti sugli interessi sul debito contratto dai Paesi vulnerabili fino a dicembre, anche per quanto concerne i prestiti del Club di Parigi (organismo composto dai membri dell’Osce e dalla Russia per la ristrutturazione del debito bilaterale). Dunque la cosiddetta Debt Service Suspension Initiative (Dssi) viene procrastinata in considerazione dell’emergenza economica scatenata dal Covid-19. Ne beneficiano i 74 Paesi, molti dei quali africani, che sono già sostenuti dall’International Development Association (Ida) della Banca Mondiale (Bm).

Da rilevare che già prima che scoppiasse la pandemia il Fondo monetario internazionale (Fmi), aveva classificato 16 dei 36 Paesi a basso reddito della macro regione dell’Africa Subsahariana in una condizione di «alto rischio e di sofferenza a causa del debito». Il tema è estremamente complesso perché in effetti per contrastare la povertà e il sottosviluppo occorrono riforme economiche sistemiche che non possono essere procrastinate nel contesto della «Casa Comune» dei popoli.

La situazione è drammatica se si considera che «milioni di famiglie nell’Africa centrale ed occidentale diventano ogni giorno più affamate e disperate, con i prezzi del cibo alle stelle che alimentano una emergenza della fame che si espande sempre più in una regione afflitta dal conflitto e dalle conseguenze socio-economiche del Covid-19». È l’allarme lanciato dal World Food Programme (Wfp), l’agenzia Onu che fornisce assistenza alimentare nelle emergenze umanitarie. La cifra è superiore di oltre il 30 per cento rispetto allo scorso anno e rappresenta il livello più alto di gran parte degli ultimi dieci anni, secondo una valutazione congiunta di analisi della sicurezza alimentare pubblicata dal Wfp, sotto gli auspici del Permanent Interstate Committee for Drought Control in the Sahel (Cilss).

Secondo Chris Nikoi, direttore regionale del Wfp per l’Africa occidentale, «l’incessante aumento dei prezzi agisce come un moltiplicatore di miseria, spingendo milioni di persone sempre di più nella fame e nella disperazione. Anche quando il cibo è disponibile, le famiglie non possono permettersi di acquistarlo. Con i prezzi in forte aumento, un pasto base è fuori dalla portata di milioni di famiglie povere che già faticavano ad andare avanti». Per avere un’idea di quella che è attualmente l’impennata dei prezzi da quelle parti, basti pensare che il costo degli alimenti di base locali è cresciuto di quasi il 40 per cento rispetto alla media degli ultimi cinque anni. In alcune zone è stato registrato addirittura un picco di oltre il 200 per cento.

Da rilevare che questa emergenza non è legata, come si è portati istintivamente a pensare, soltanto alla crisi economica scatenata dalla pandemia. Se da una parte è vero che i redditi sono precipitati a causa della riduzione delle attività nel turismo, nel commercio, nei lavori informali e nelle rimesse; dall’altra ci sono di mezzo, come già avvenuto in passato, le perniciose speculazioni finanziarie sui prodotti alimentari. Sono soprattutto i futures, cioè le scommesse sul prezzo futuro di un determinato prodotto agricolo a fare la differenza. In gergo tecnico sono chiamati «investimenti passivi» in quanto si tratta di capitali su cui, operando con la leva finanziaria, si possono creare prodotti finanziari per un valore di 30-100 volte maggiore della base sottostante. In altre parole per ogni tonnellata di grano o mais prodotto se ne possono artificialmente vendere e comprare cento.

Ecco che allora i prezzi del cibo sono oggetto anche dell’high frequency trading, cioè di operazioni finanziarie gestite automaticamente dagli algoritmi, per giocare su piccolissime variazioni del prezzo in millisecondi. A questo proposito l’economista Paolo Raimondi, che da anni studia attentamente la fenomenologia dei processi speculativi, con particolare attenzione ai loro effetti sulle nazioni svantaggiate, rileva che «il sistema speculativo in quanto tale, gestito da banche e hudge funds, muove circa il 90% dei volumi dei futures finanziari. Esso ha prodotto dei veri e propri sconquassi sui mercati, manipolando sia le previsioni sugli andamenti di borsa che sui prezzi delle commodity. Risultato? Tutto questo ha generato profitti a non finire per gli investitori, acuendo a dismisura le diseguaglianze».

L’effetto di queste operazioni che potremmo paragonare al gioco d’azzardo, determina, infatti, l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari e conseguentemente impennate inflattive sui prezzi del cibo, con un impatto devastante sui ceti meno abbienti, soprattutto nei Paesi più poveri del Sud del mondo, in Africa in particolare. Di conseguenza, milioni di famiglie, soprattutto in Africa, che solitamente impegnano per l’alimentazione il 75-80 per cento del loro bilancio, diventano incapaci di provvedere al loro minimo sostentamento.

Di fronte a questo aberrante scenario segnato da una persistente e crescente distorsione dell’economia finanziaria che consente di operare azioni speculative ad alto rischio, s’impone una chiara presa di posizione da parte del consesso delle nazioni. Attualmente, sul palcoscenico internazionale, l’unica voce fuori dal coro è quella di Papa Francesco che non si stanca di ripetere, come ha fatto ad esempio alla Fao, il 20 novembre 2014, che «è doloroso constatare che la lotta contro la fame e la denutrizione viene ostacolata dalla “priorità del mercato”, e dalla “preminenza del guadagno”, che hanno ridotto il cibo a una merce qualsiasi, soggetta a speculazione, anche finanziaria». Concetti, questi, che egli ha ribadito in più circostanze, riaffermando la dignità della persona umana creata ad immagine e somiglianza di Dio. D’altronde, la finanziarizzazione dell’economia mondiale sta sempre più imponendo, anche in tempo di Coronavirus, un modello di sviluppo economico basato sempre meno sulla manifattura e sui processi produttivi dell’economia reale. Stiamo parlando di quel modello — è bene rammentarlo — che ha innescato la crisi finanziaria del 2008-2009 di cui il mondo intero sta ancora oggi pagando le conseguenze.

Ben venga dunque la recente Campagna per la cancellazione del debito lanciata dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale e la Commissione Covid del Vaticano, in collaborazione con Caritas Africa, la Conferenza dei gesuiti dell’Africa e del Madagascar (Jcam) e l’Associazione delle consacrate dell’Africa centrale e orientale (Acweca).

Pur riconoscendo il sacrosanto principio che i debiti vanno onorati, è più che mai necessario far emergere le fondamentali istanze di giustizia, senza le quali è impossibile dare autentica qualità umana e futuro al nostro mondo. Del resto, a pensarci bene, esiste anche il debito ecologico dei Grandi della Terra, principali responsabili dei cambiamenti climatici, il cui peso, ricade in gran parte sulle nazioni più povere, tra cui quelle africane.

di Giulio Albanese