Pubblichiamo un brano tratto da «Il mito di Sisifo» contenuto in «Opere» (Bompiani, 2000).
Tutti gli eroi di Dostoevskij interrogano se stessi sul senso della vita, ed è sotto questo aspetto che sono moderni: essi non temono il ridicolo. Ciò che distingue la sensibilità moderna dalla classica è il nutrirsi questa di problemi morali e quella di problemi metafisici. Nei romanzi di Dostoevskij, il problema è posto con tale intensità, da non poter impegnare che a soluzioni estreme. L’esistenza è menzognera o è eterna. Se Dostoevskij si accontentasse di questo esame, sarebbe filosofo. Ma egli illustra le conseguenze che quei giochi dello spirito possono avere nella vita di un uomo, ed è in ciò che è artista. Fra queste conseguenze, l’estrema, quella che egli stesso nel Diario di uno scrittore chiama suicidio logico, lo avvince. Nella puntata del dicembre 1876, infatti, egli immagina il ragionamento del “suicidio logico”.
Persuaso che l’esistenza umana sia una perfetta assurdità per chi non ha fede nell’immortalità, quel disperato arriva alle seguenti conclusioni: «Poiché alle mie domande intorno alla felicità mi viene dichiarato, come risposta, per mezzo della mia coscienza, che posso esser felice esclusivamente nell’armonia con il grande tutto, che io non concepisco, e non sarò mai in grado di concepire, è evidente (...). Poiché, infine, in questo ordine di cose assumo, allo stesso tempo, la parte del querelante e del rispondente, dell’accusato e del giudice, e poiché trovo, da parte della natura, questa commedia assolutamente stupida, e da parte mia stimo persino umiliante accettare di rappresentarla (...). Nella mia indiscutibile qualità di querelante e di rispondente, di giudice e di accusato, condanno questa natura, che, con una impudente sfacciataggine, mi ha fatto nascere per soffrire — io la condanno ad essere annientata insieme con me». Vi è anche un po’ di spirito in questa posizione. Questo suicida si uccide perché, sul piano metafisico, è seccato. In un certo senso, si vendica. È questo il mezzo che egli possiede per provare che «non l’avranno vinta con lui».
Si sa, tuttavia, che lo stesso tema si incarna, ma con meravigliosa ampiezza, in Kirillov, personaggio dei Démoni, pur egli partigiano del suicidio logico. L’ingegnere Kirillov dichiara, a un certo punto, che vuol togliersi la vita, perché questa è «la sua idea». Si capisce bene che bisogna prender la parola nel senso proprio. È per un’idea, per un pensiero, che egli si prepara alla morte. È il suicidio superiore. Progressivamente, durante tutte le scene in cui la maschera di Kirillov a poco a poco si illumina, ci viene svelato il pensiero mortale che lo anima. L’ingegnere, infatti, riprende i ragionamenti del Diario. Sente che Dio è necessario e che bisogna pure che esista, ma sa che non esiste e che non può esistere. «Come non capisci — egli esclama — che è questa una ragione sufficiente per uccidersi?». L’atteggiamento provoca, parimenti, in lui alcune conseguenze assurde. Egli accetta, per indifferenza, di lasciare che il proprio suicidio venga utilizzato a favore di una causa che disprezza. «Questa notte ho deciso che ciò mi sarebbe stato indifferente». Egli prepara, infine, il suo gesto, con un senso di rivolta misto a un senso di libertà. «Mi ucciderò per proclamare la mia insubordinazione, la mia nuova e terribile libertà». Non si tratta più di vendetta, ma di rivolta.
Kirillov è, dunque, un personaggio assurdo — tuttavia con un’essenziale riserva: che egli si uccide. Ma egli stesso spiega questa contraddizione, e in tal maniera che svela, nel medesimo tempo, il segreto dell’assurdo in tutta la sua purezza. In lui, infatti, alla logica mortale si aggiunge una straordinaria ambizione, che dà al personaggio tutta la sua prospettiva: egli vuol uccidersi per diventare dio.
Il ragionamento è di una chiarezza classica. Se Dio non esiste, Kirillov è dio. Se Dio non esiste Kirillov deve uccidersi. Kirillov deve, dunque, uccidersi per essere dio. Questa logica è assurda, ma è quanto ci vuole. L’interessante, però, è di dare un senso a questa divinità ricondotta sulla terra. Questo viene a chiarire la premessa: «Se Dio non esiste, io sono dio», che resta ancora abbastanza oscura. È importante notare, anzitutto, che l’uomo che ostenta questa insensata pretesa, è proprio di questo mondo. Fa ginnastica ogni mattina, per conservarsi la salute, e si commuove alla gioia di Chatov, quando ritrova la moglie. Su un foglio, trovato dopo la sua morte, egli vuol disegnare una figura, che fa “loro” le boccacce. È puerile e collerico, appassionato, metodico e sensibile. Del superuomo possiede soltanto la logica e l’idea fissa, dell’uomo tutta l’estensione. È lui tuttavia che parla tranquillamente della sua divinità. Egli non è un pazzo, altrimenti lo sarebbe Dostoevskij. Non è, dunque, un’illusione di megalomane che l’agita, e prender le parole nel senso proprio sarebbe, questa volta, ridicolo.
Lo stesso Kirillov ci aiuta a capirlo meglio. A una domanda di Stavrogin, egli precisa che non parla di un dio-uomo. Si potrebbe pensare che lo faccia per la cura di distinguersi dal Cristo, mentre, in realtà, si tratta di assimilarlo a sé. Kirillov, infatti, a un certo momento immagina che Gesù, morendo, non si sia ritrovato in paradiso ed abbia capito, allora, che la sua tortura era stata inutile.
«Le leggi della natura — dice Kirillov — hanno fatto vivere il Cristo fra la menzogna e lo hanno fatto morire per una menzogna». Soltanto in questo senso, Gesù incarna bene tutto il dramma umano. Egli è l’uomo-perfetto, in quanto è quello che ha realizzato la più assurda condizione. Non è il Dio-uomo, ma l’uomo-dio. E, come lui, ciascuno di noi può essere crocifisso e ingannato — anzi lo è, in una certa misura.
La divinità della quale trattasi, è, dunque, esclusivamente terrestre. «Ho cercato per tre anni — dice Kirillov — l’attributo della mia divinità e l’ho trovato. È l’indipendenza». Si intravede, ormai, il senso della premessa di Kirillov: «Se Dio non esiste, io sono dio». Divenire dio, significa soltanto esser libero su questa terra e non servire un essere immortale e, soprattutto, beninteso, trarre tutte le conseguenze di questa dolorosa indipendenza. Se Dio esiste, tutto dipende da lui e non possiamo niente contro la sua volontà; se non esiste, tutto dipende da noi. Per Kirillov, come per Nietzsche, uccidere Dio è divenire dio — è realizzare già su questa terra la vita eterna, di cui parla il Vangelo.
Ma se questo delitto metafisico basta al compimento dell’uomo, perché aggiungervi il suicidio? Perché uccidersi, lasciare questo mondo, dopo aver conquistato la libertà? Ciò è contraddittorio. E Kirillov lo sa bene, quando aggiunge: «Se tu hai questa sensazione, sei un re e, lungi dall’ucciderti, vivrai nel colmo della gloria». Ma gli uomini non lo sanno: essi non sentono “questo”, e, come al tempo di Prometeo, nutrono in sé le cieche speranze. Hanno bisogno che si mostri loro il cammino e non possono fare a meno della predicazione. Kirillov deve, dunque, uccidersi per amore dell’umanità; deve mostrare ai suoi fratelli una via sovrana e difficile, nella quale egli sarà il primo. Si tratta di un suicidio pedagogico. Kirillov, dunque, si sacrifica; ma anche se è crocifisso, non sarà ingannato. Egli resta uomo-dio, persuaso di una morte senza avvenire, penetrato della malinconia evangelica. «Io — egli dice — sono infelice perché sono obbligato a proclamare la mia libertà». Ma, una volta morto e gli uomini finalmente illuminati, la terra si popolerà di re e risplenderà della gloria umana. Il colpo di pistola di Kirillov sarà il segnale dell’ultima rivoluzione. Così, non è la disperazione che lo spinge alla morte, ma l’amore del prossimo, in sé. Prima di finire nel sangue un’indicibile avventura spirituale, Kirillov pronuncia una frase vecchia quanto la sofferenza degli uomini: «Tutto è bene».
Il tema del suicidio in Dostoevskij è, dunque, un tema assurdo. Notiamo solamente, prima di procedere oltre, che Kirillov ricompare in altri personaggi, che, pure loro, propongono nuovi temi assurdi. Stavrogin e Ivan Karamazov fanno, nella vita pratica, esercizio di verità assurde. Sono essi che vengono liberati dalla morte di Kirillov. Essi si sforzano di essere re. Stavrogin conduce una vita “ironica”, e si sa già abbastanza quale. Egli fa sollevare l’odio intorno a sé, e tuttavia la chiave di questo personaggio si trova nella sua lettera d’addio: «Non ho potuto detestare nulla». Egli è re nell’indifferenza. Pure Ivan lo è, quando rifiuta di abdicare ai poteri regali dello spirito.
A coloro che, come suo fratello, provano con la vita che bisogna umiliarsi per credere, potrebbe rispondere che la condizione è indegna. Il motto, che costituisce la chiave del suo pensiero, è: «Tutto è permesso», con una conveniente sfumatura di tristezza. Ben inteso, come Nietzsche, il più celebre fra gli assassini di Dio, finisce nella follia. Ma è un rischio che bisogna correre e, davanti a queste fini tragiche, il moto essenziale dello spirito assurdo è chiedersi: «Che cosa prova tutto questo?».
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