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Scenari

Partita energetica sull’acqua

La costruzione della Grande diga del rinascimento etiope sul Nilo (Reuters / Tiksa Negeri)
16 aprile 2021

Da Fukushima alla Grande diga sul Nilo Blu: l’acqua degli oceani e dei fiumi convogliata nel ciclo della grande spinta produttiva mondiale che guarda di nuovo al nucleare


Fra le tante questioni che il corpo non-morto della centrale di Fukushima continua a sollevare dallo tsunami del 2011 che l’ha trasformata nello spettro di Banquo nucleare del pianeta, c’è la domanda di base. Di chi è il mare? A seguire da quella strettamente collegata: di chi è l’acqua? Fino a che punto gli Stati sovrani possono sfruttare oceani, fiumi e intercettare falde in un sistema sempre più energivoro e idrovoro nonostante l’obiettivo transnazionale di dare all’economia un’impronta «verde»?

Fukushima è il paradigma della questione: i reattori da undici anni richiedono tonnellate d’acqua al giorno per evitare la fusione del nocciolo e continueranno a richiederne. Oltre un milione di tonnellate d’acqua passata per i reattori, contaminata e stoccata per anni in una cittadella di container, rischia di essere sversata in mare, acque di tutti, perché lo spazio sta finendo: il Giappone assicura che sarà prima trattata «in linea con i protocolli dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica». La quale, a sua volta, ritiene che trovare una soluzione al problema dello smaltimento sia esclusiva competenza di Tokyo: sia che la lasci evaporare, la inietti nel sottosuolo o, come annunciato, la sparga nel Pacifico.

È finita che un vicino, la Corea del Sud, si è rivolto al Tribunale per il diritto del mare che, dal 1982, in genere si è occupato di controversie sulle acque territoriali per lo sfruttamento di pesca e risorse naturali. La domanda, però, stavolta è, se possibile, ancora più importante. Il Pacifico è di tutti o uno Stato rivierasco può disporre del tratto sul quale si affaccia?

Cina e Corea del Sud hanno già risposto che non ammetteranno l’uso «nazionale» dell’oceano. E anche l’Aiea, che pure ha assicurato al Giappone «il sostegno nell’attuazione» del piano di smaltimento, ammette che l’operazione, per portata e soggetti coinvolti, è del tutto nuova. Fukushima, non produce più energia, assorbe acqua, sta per rilasciare a mare quel che ha accumulato in un decennio di trattamenti dei noccioli dei reattori. Dovrebbe rappresentare la fine di un’era.

Ma nel piano triennale per la strategia energetica nazionale giapponese sta scritto che la produzione di energia elettrica deve crescere. Nella prospettiva del 2050 l’incremento dovrebbe essere del 50 per cento quando si dovrebbe arrivare al risultato delle emissioni zero e alla decarbonizzazione.

È dunque coerente, in un Paese povero di risorse, quanto ha affermato a febbraio il ministro dell’Economia, commercio ed industria Hiroshi Kajiyama: «il nucleare ci è indispensabile». Una nuova scossa di terremoto al largo di Fukushima ha rilasciato l’eco — ma da un epicentro fortunatamente più profondo che nel 2011 — appena una decina di giorni dopo queste parole, il 13 febbraio. La Tepco (Compagnia di elettricità di Tokyo) si è affrettata ad assicurare al mondo che, cali di pressione nei vasi di contenimento di un reattore a parte, non c’erano stati, stavolta, «particolari problemi».

Non sono i soli segnali che, nella svolta a zero carbone abbracciata dalla comunità internazionale, la produzione mondiale non intende appoggiarsi alle sole rinnovabili.

Il nucleare, anzi, è in ascesa. Lo dice l’aumento vertiginoso del prezzo dell’uranio schizzato al massimo da sei anni in qua, con un balzo del 35 per cento.

Una simile febbre significa che gli investitori, al tavolo verde della finanza, mettono le loro fiches sul nucleare, visto come alternativa affidabile, perché continua, all’energia fossile. Non certo solo su solare o eolico. Il modello energetico idrovoro, appoggiato sugli oceani, avrà dunque lunga vita.

Non solo. Le esigenze di una società sempre più energivora sono incamminate ad uno sfruttamento intensivo delle acque, intese come mari, fiumi, falde, acque convogliate verso esigenze sempre nuove e più alte. E le contese trasnazionali — già frequenti — si stanno trasformando in una corsa all’acqua per raffreddare, letteralmente, la più immane produzione vista di energia, estrazione di risorse naturali ed anche di quelle che potremmo definire risorse artificiali. Senza quantità abnormi d’acqua per raffreddare impianti e supercomputer sempre più sotto pressione, la corsa alla produzione dovrebbe rallentare. La tendenza, invece, è all’accelerata.

L’ultima frontiera ha quasi un sapore alchemico. È l’oro virtuale, che si estrae da miniere virtuali, si vende in lingotti virtuali e garantisce monete virtuali.

L’oro virtuale lo fabbricano enormi database, supercomputer in giro per le aree più fredde e ricche d’acqua del mondo, e lo conosciamo come criptomoneta (ma meglio si adatterebbe l’immagine del criptolingotto). Sono il frutto di una serie di operazioni algoritmiche prodotte da una «zecca» virtuale che si chiama blockchain.

I supercomputer al lavoro per la blockchain si surriscalderebbero se non fossero adeguatamente raffreddati con l’acqua. Il consumo energetico per produrre l’oro artificiale globale è, infatti, pari al consumo annuale di uno Stato nazionale industrializzato di media grandezza. L’università di Cambrige ha lanciato un programma di sorveglianza sull’impatto sui consumi del crypto mining ( cbeci o Cambridge Bitcoin Electricity Consumption Index), disegnando anche la mappa di queste miniere artificiali: la cui energivorità, con conseguente fabbisogno d’acqua, è in crescita esponenziale. Più oro artificiale si estrae e più criptomoneta batte la blockchain, più energia occorrerà per proseguire in operazioni sempre più complesse: più acqua, dunque, sarà assorbita dal ciclo. Il cooling system (il “raffreddamento”) della rete mineraria globale che passa dalla Cina alla Russia, attraversa Stati Uniti, Islanda, Europa, Iran ed Egitto, è infatti considerato dal cbeci molto efficiente.

Come ogni campo minerario, anche questo si esaurirà, una volta raggiunta la quota di 21 milioni di bitcoin (il criptolingotto). Semplicemente sarebbe insuperabilmente costoso e complesso — energivoro ed idrovoro — farne uno in più. È stato valutato, ma con l’approssimazione necessaria, che abbiamo davanti circa 70 anni di «estrazioni» compulsive.

A risucchiare acqua c’è, poi, poi il grande circuito della produzione di chip da semiconduttori, che servono a far girare tutto, dalle auto, ai telefoni, all’informatica, fino alle lavatrici. Il mondo ne ha fame — ce n’è carenza visti i consumi hi tech per la pandemia — ma per sfamarsi deve bruciare l’acqua. L’isola di Taiwan è l’hub mondiale per la produzione dei cosiddetti wafer: possiede la tecnologia leader per trattare i semiconduttori. Sta subendo una graditissima pressione globale per espandere la produzione, soprattutto dal settore automobilistico. L’acqua delle piantagioni di riso, però, sta finendo nel raffreddamento della tsmc (Taiwan Semiconductor Manifacturing Company) che produce per tutto il mercato della tecnologia del mondo.

I giacimenti d’acqua sono la nuova frontiera della corsa all’energia. Un esempio per tanti, la Grande diga del rinascimento etiope, o Diga del millennio, in costruzione sul Nilo Blu ai confini con il Sudan dal 2011. Dovrebbe diventare il più grande bacino idroelettrico d’Africa. La contesa a riguardo fra Etiopia, Sudan ed Egitto è ad uno stallo. Ogni Paese sostiene di difendere interessi vitali e l’Etiopia si prepara a colmare il bacino. Immagine efficace della grande partita energetica per l’acqua che stiamo giocando.

di Chiara Graziani