· Città del Vaticano ·

La comunità di lavoro
al tempo della pandemia

B o rg o La Martella a Matera, progetto urbanistico voluto da Adriano Olivetti per gli abitanti dei Sassi
13 aprile 2021

Se ne è guadagnato il diritto, con tutta una vita, e da lassù ci ha guardati, nella crisi. Adriano Olivetti avrà pensato al Paese come alla sua comunità, avrà pianto con noi per i camion di Bergamo, si sarà commosso per le canzoni dai balconi e avrà assorbito con noi le immagini del Papa sul sagrato di San Pietro. Avrà certamente faticato a trattenersi dall’entrare nella mischia guardando le convulsioni della politica, degli amministratori e delle imprese per capire “come“ intervenire.

Eppure c’è tanto, di lui, nel modo in cui i migliori fra noi hanno reagito alla crisi, soprattutto quando all’ “io” dell’imprenditore o degli operai si è sostituito il “noi” della comunità: per Adriano Olivetti il “fine” del profitto è il miglioramento della vita di tutti gli appartenenti alla comunità, e l’imprenditore non permette — sopportando le perdite — che la crisi attacchi anche i livelli di sussistenza del lavoratore. Passano davanti agli occhi le immagini di tanti piccoli imprenditori, e di imprenditori illuminati anche non piccoli, che si sono “fatti carico” per intero dell’impatto della crisi pur di non spezzare il vincolo di solidarietà interna della comunità aziendale.

All’interno delle imprese, la prima conferma dell’idea di comunità, al di là di qualsiasi approccio ragionieristico, è venuta comunque dai lavoratori, e dal modo in cui — nei giorni del panico — hanno volto lo sguardo verso le imprese con una potente richiesta di indicazioni, che pensavano naturale pervenissero dall’Azienda. In quei giorni il problema era diventato nazionale ma il Paese non aveva ancora elaborato tutte le risposte sul “che fare”.

La chiusura delle scuole, ad esempio, ha posto immediatamente le imprese di fronte al più urgente degli imperativi, alla prima delle priorità: conoscere in concreto la situazione familiare dei lavoratori, la loro organizzazione di vita, e ricercare, assieme a loro ed ai loro rappresentanti sindacali, la migliore composizione possibile fra le prioritarie esigenze familiari e l’esigenza di continuità operativa. Quest’ultimo bisogno, se all’inizio poteva leggersi come esigenza dell’impresa (la business continuity, di tanti convegni) è stato sempre più chiaramente un bisogno di continuità della dimensione individuale e collettiva del lavoro, dell’appartenenza alla propria comunità aziendale. Le aziende migliori hanno subito investito su questa nuova ed importante priorità: l’inclusione di tutti i componenti della comunità, il loro coinvolgimento attivo nella trasformazione.

Non è vero che sia andata ovunque così, e non è neanche vero che i nuovi paradigmi emergenti siano sempre chiari: la malattia delle imprese è la concentrazione sul risultato di breve termine, l’equilibrio dei conti nello spazio di un mandato (di un Consiglio, di un amministratore), ed è un passaggio spesso faticoso capire che non sempre la “minimizzazione dell’impatto sui conti dell’esercizio” sia la strada giusta. Mi è sembrato questo il caso di alcune risposte ambiguamente aperturiste: “tutti a casa”, anche se i nuovi strumenti non sono tutti disponibili ma purché sia possibile, in tempi brevi, ridurre gli spazi occupati dall’Azienda e fare cost saving.

La pandemia ha ricomposto la dimensione “macro” — la planetarizzazione delle sfide, dal cambiamento climatico al covid-19 — e quella “micro”, la responsabilità individuale della persona di fronte ai problemi dell’umanità, e la responsabilità sociale dell’impresa di fronte ai problemi del territorio. Le sedi delle imprese e delle amministrazioni hanno giganteggiato come riferimento — o mancanza di riferimento — nella crisi, e l’approccio migliore è venuto dall’integrazione, dallo sforzo di concepire soluzioni — nei grandi Comuni ad esempio — per ottimizzare, in un’ottica di sostenibilità, le scelte infrastrutturali o relative alla mobilità dei comuni, la possibilità di investimento delle imprese in nuove tecnologie ed i bisogni delle comunità aziendali. Nessuno può dire quali risultati siano conseguibili se l’utilità aziendale e l’utilità dei lavoratori coincidono con l’utilità sociale della città: è questo il caso quando l’allocazione delle sedi delle imprese sul territorio tiene conto dell’origine della residenza delle persone, delle tecnologie disponibili e della necessità di minimizzare l’impatto sulla mobilità.

Questo è l’elemento principale che riporta in mente l’Ingegner Olivetti: la globalizzazione si era posta come elemento di accelerazione della mobilità, come generatore di infiniti “nonluoghi” del consumo, del trasporto e della comunicazione (Marc Augé) e di una inquietante “comunicazione senza comunità” (Byung-Chul Han). La pandemia ha costretto ad aggiornare gli scenari, e prendere in considerazione un mondo “a mobilità ridotta” in cui sarà solo la sostenibilità di tutte le comunità territoriali, integrate e consapevoli della propria interdipendenza, a generare la sostenibilità del pianeta. Una bella conferma delle visioni di Adriano Olivetti, quando connetteva architettura, urbanistica, psicologia e sociologia, al servizio delle comunità.

di Antonio Migliardi