· Città del Vaticano ·

Due romanzi sulla figura del padre

Quello che non ti dicono

Frida Kahlo, «Ritratto di mio padre» (1952, Museo Frida Kahlo, Città del Messico)
09 aprile 2021

Cosa c’entra la letteratura con il rapporto con il proprio padre? Parecchio. Almeno a incrociare due testi, inclassificabili nella loro unicità (memoir? biografie? romanzi?) da poco in libreria. Due libri che, con la “scusa” di rievocare la complessità del proprio genitore, danno la possibilità agli autori in questione di riflettere e motivare la scelta del proprio mestiere: scrivere storie. Che è sempre un mestiere che fa bene.

Parliamo di Forse mio padre di Laura Forti (Firenze, Giuntina, 2020, pagine 220, euro 15) e Il padre (Udine, Bottega errante, 2020, pagine 192, euro 17), opera dello scrittore di Sarajevo Miljenko Jergović. Due testi accomunati non solo dall’oggetto narrativo – la propria figura paterna – ma anche dal fatto che essa, piccola storia personale, venga inserita nel quadro più ampio della Grande Storia.

Proprio Laura Forti – una delle autrici di teatro più rappresentate al mondo – ci offre una chiave di lettura della sua opera: «Ho associato le chiavi alla scrittura. Mi sono detta che forse non era andato tutto perduto. Avevo la possibilità, forse la capacità, di dare un’interpretazione alla mia storia, di penetrare nei suoi contenuti raccontandola». E la sua storia è quanto mai peculiare: il padre che l’ha allevata non era il suo vero genitore, il suo era stato un’avventura amorosa della madre in un momento di difficoltà, una figura che poi è apparsa di tanto in tanto nella vita della giovane Laura. «Ho ripreso coraggio, ho capito che c’era ancora una strada da percorrere. Con la scrittura avevo l’occasione di disubbidire al patto di silenzio. E soprattutto, di riprendermi ciò che era mio». La letteratura come il luogo in cui, per parafrasare quanto Mario Calabresi ha scritto nel suo ultimo libro, quello che non ti dicono «te lo vai a cercare». In questo caso, ricostruendo l’identità, i tratti, il volto di un padre non conosciuto.

Cosa ha perso il vero padre di sua figlia restando assente? «I primi passi, le prime parole, i giochi, gli abbracci, le feste, il bacio della buonanotte, quello del risveglio, i compleanni, insegnarmi a nuotare, a andare in bicicletta, le recite a scuola, quelle a teatro, i fidanzati, il marito, i nipoti». E il libro di Forti diventa una potente lode del potere sanante della letteratura: «Non ho avuto un padre, forse non ho avuto neanche una madre affidabile, ma ho avuto la scrittura» afferma Forti. Una scrittura che diventa catarsi e liberazione: «Mi libero del freddo che questo segreto ha comportato; nessun fantasma potrà più uscire dalla cripta (…) Quando la memoria non c’è, non basta o resta muta, dobbiamo costruircene una nostra. Dobbiamo avere fede nella fantasia». Per questo, anche in un rapporto mai esistito con un padre, l’immaginazione diventa feconda: «Meglio provare il dolore di un amore non corrisposto che non avere mai amato. Meglio averlo desiderato, immaginato nella fantasia, perfino averlo perduto».

Da parte sua Miljenko Jergović – siamo in tutt’altro ambiente: la Yugoslavia titina e successivamente la stagione, sanguinosa, della sua dissoluzione – riallaccia i debiti con la figura paterna, anch’essa assente dalla proprio vita, per una scelta sentimentale rispetto alla sposa-madre. E cosa è successo al genitore dell’autore de Il padre? «Ciò che nel tetro pathos mediatico, politico ed epico è diventato parte di una generica retorica nazionalista – che gli ex vicini, quelli a cui avevamo fatto del bene, cui avevamo dato da mangiare, che avevamo protetto e aiutato, sparavano su di noi mentre ci nascondevamo nelle nostre case – accadde davvero a mio padre». Così, il signor Jergović il massimo che può ottenere, allo scoppio della guerra civile, è essere avvisato da qualche serbo, che evidentemente aveva un debito di riconoscenza con lui, medico, specialista in leucemie, che ora sarà un bersaglio.

La rievocazione del rapporto con il proprio padre diventa l’occasione, per l’autore, di trovare anche ragioni per perdonare un genitore del poco affetto ricevuto: «Era lontano da me e non sapeva neppure come amarmi. Forse anche per questo la coscienza lo tormentava. (…) Il modo in cui suo padre, mio nonno, l’aveva rifiutato, in qualche insolito modo aveva definito il suo rapporto con me». Il recupero di un rapporto difficile diventa occasione per sanarlo: «A mio padre, nonostante il fatto che sia morto domenica, appartiene il mio futuro, mentre a me appartiene il suo passato. Io vivo in ciò che lui evitava e di cui aveva paura, mentre lui vive in ciò di cui io non voglio sapere nulla». E anche secondo Jergović la letteratura diventa una medicina sanante quando c’è da affrontare il rapporto, mai risolto, sempre in movimento, con chi ci ha dato la vita: «Forse Wittgenstein non ha ragione: esiste anche quello che non si lascia dire e che, contemporaneamente, è impossibile tacere. La letteratura, tra l’altro, serve anche a questo: a tentare di nuovo per tutta la vita di dire qualcosa di ciò che non si lascia costringere nelle parole, mentre allo scrittore pare di averlo sempre sulla punta della lingua».

di Lorenzo Fazzini