· Città del Vaticano ·

Chi vende oggi
le armi ai terroristi?

 Chi vende oggi  le armi ai terroristi?  QUO-079
08 aprile 2021

Durante la prima udienza generale dopo il suo viaggio in Iraq, a poche ore dal suo rientro, il 10 marzo scorso, Papa Francesco ha formulato una domanda molto precisa, di quelle che scuotono le coscienze: «Chi vende oggi le armi ai terroristi, che stanno facendo stragi in altre parti, pensiamo all’Africa per esempio?». Il Pontefice ha rivelato che la vista delle rovine e delle cicatrici che hanno lasciato quattro decenni circa di guerre in questo Paese del Vicino Oriente ha fatto nascere in lui una domanda: «Chi vendeva le armi ai terroristi?». «È una domanda a cui io vorrei che qualcuno rispondesse», ha affermato con fermezza.

Sono trascorsi ventinove giorni da quando Francesco ha lanciato questo potente messaggio al mondo, interpellando i fedeli della sua Chiesa, le società e la politica mondiale con questo quesito profondo e ineludibile per il destino dell’umanità intera.

Pochi hanno compreso che il futuro del pianeta dipende in larga misura dal fatto che le persone, la politica e il potere economico decidano di accogliere e di rispondere a questa domanda, e dal modo in cui lo faranno.

Mai prima di allora, nel millenario cammino della Chiesa, si sono viste immagini così sconvolgenti come quelle di un Papa di fronte a un cumulo di macerie, come quelle delle “Quattro chiese” che danno il nome alla piazza di Mosul, mentre pregava per tutte le vittime della guerra in Iraq. Ciò che resta di Mosul, un tempo la seconda città più grande del Paese e una delle più antiche dell’umanità, è ricoperto dalle rovine provocate da quella che gli esperti militari chiamano «la più grande battaglia urbana dalla seconda guerra mondiale», un appellativo che già di per sé dà un’idea delle dimensioni del disastro.

Un leader spirituale tra le rovine della guerra


E sulle macerie e sui calcinacci, Francesco ha incarnato il più nobile dei leader, il leader servitore che, con la sua presenza, testimonia che non bisogna far riferimento a sé stessi ma agli altri, con affetto e sollecitudine, evocando speranza e fiducia a partire dalla distruzione e dalla desolazione. Aspirazioni umane fondamentali, anche se gli abitanti dell’antica Mesopotamia avevano ormai perso l’abitudine di evocarle.

La catechesi di mercoledì 10 marzo è un autentico esame di coscienza per fedeli e governanti, poiché Francesco li ha posti dinanzi allo specchio del Vangelo e ha chiesto loro coerenza. Non è stata una casualità che il Papa abbia formulato questa domanda durante l’udienza generale, che è l’evento fisso settimanale nel quale incontra i fedeli — malgrado questi ultimi spesso hanno dovuto seguirla attraverso i mass media a causa della pandemia — e dove più si cristallizza il concetto di Chiesa in uscita, che va incontro alle problematiche del mondo, in cerca delle periferie. La catechesi è l’incontro con il quale, da un lato, il pastore dà consigli al suo gregge, funge da guida spirituale, scuote le coscienze, fa domande scomode, chiede riflessione, discernimento, coinvolge i fedeli, cerca la “Chiesa viva” che si spoglia dell’autoreferenzialità; e, dall’altro, dove i fedeli lo ascoltano con un atteggiamento aperto, ben predisposti a ricevere insegnamenti, orientamenti, formazione spirituale.

È in questo straordinario “condensatore” del magistero di Francesco che sono le udienze generali che si materializza meglio la vicinanza della Chiesa ai bisogni e ai problemi, alle incognite e ai dilemmi del popolo di Dio: dove, per dirla in un linguaggio colloquiale, «s’impara a essere cristiani». Quando si ascolta il Papa parlare con tanta vicinanza e comprensione, si ha l’impressione che voglia giungere al mondo attraverso i suoi fedeli, che voglia che tutti si facciano Chiesa e si sentano parte attiva della Chiesa. Non si rivolge a circoli politici ristretti, e neanche a qualche élite, ma parla a tutti e chiede ai fedeli di essere loro a portare il Vangelo al mondo che ne ha tanto bisogno.

Il Papa offre la sua testimonianza, la sua “guida attraverso l’esempio” al suo popolo. Non predica dall’alto in basso, ma coinvolge tutti, parla dall’autorità conferita dalla testimonianza.

Un cammino alternativo a quello delle armi


«Chi vendeva le armi ai terroristi?». La domanda che il Pontefice che ha posto al mondo dopo la sua visita in Iraq, e dopo avere dimostrato che c’è un cammino alternativo a quello delle armi — ossia il cammino dell’incontro, del dialogo e della compassione — riecheggia ancora nell’aria senza risposta. La violenza delle armi interpella la stessa Chiesa, che non vive nel vuoto bensì nella storia, e la obbliga a ricorrere alla propria tradizione di forze spirituali, intellettuali e morali per affrontarla alla maniera evangelica. «La risposta non è la guerra ma la risposta è la fraternità. Questa è la sfida per l’Iraq, ma non solo: è la sfida per tante regioni di conflitto e, in definitiva, è la sfida per il mondo intero: la fraternità», ha aggiunto il Papa nella catechesi del 10 marzo.

Francesco ha inoltre celebrato il gesto coraggioso di diverse religiose che hanno protestato a favore della democrazia e contro la violenza e la repressione in Myanmar. Come si è potuto constatare in alcuni scatti fotografici che hanno fatto il giro del mondo, le suore si sono inginocchiate in nome della pace di fronte alla polizia. Il Papa, il mercoledì successivo, ossia il 17 marzo, ha affermato durante l’udienza generale: «Anch’io mi inginocchio sulle strade del Myanmar e dico: cessi la violenza! Anch’io stendo le mie braccia e dico: prevalga il dialogo!». La denuncia dell’orrore della guerra e delle armi è un grido ricorrente non solo di Francesco ma anche dei Papi che lo hanno preceduto.

La pace deve guidare il destino dei popoli e l’umanità


Cinquantacinque anni fa, il 4 ottobre 1965, festa di san Francesco d’Assisi, Paolo vi fu il primo Papa della storia che durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite pronunciò un netto no al linguaggio delle armi: «Non più la guerra!» disse Papa Montini, e poi aggiunse: «La pace deve guidare le sorti dei popoli e dell’intera umanità!». Seguendo le orme di Giovanni xxiii e di Paolo vi , Francesco si è fatto testimone e pellegrino di pace in una realtà di guerra, un’autentica pietra miliare e un nuovo passo nel cammino della Chiesa a favore della riconciliazione, che creerà un precedente per il futuro.

La complessità del mondo attuale si visualizza ogni giorno ed è strutturale. Il confinamento di gran parte dell’umanità nella primavera boreale del 2020 ha paralizzato industrie, trasporti e servizi di ogni tipo, riducendo all’essenziale in molti Paesi l’attività economica, l’industria che produce e distribuisce alimenti e medicinali, la fornitura di servizi e il mantenimento di infrastrutture, a parte i servizi sanitari e l’amministrazione principale.

Eppure l’industria bellica non ha ridotto in modo significativo la sua attività, anzi l’ha portata avanti, persino durante la pandemia. Vendendo e comprando armi in grandi quantità. Anche se per la prima volta il commercio mondiale degli armamenti non ha registrato una crescita, ma è rimasto stabile.

Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri, acronimo in inglese), i trasferimenti internazionali di armi pesanti hanno mantenuto lo stesso livello dei periodi 2011-15 e 2016-20.

Sebbene per la prima volta dal quinquennio 2001-2005 le compravendite di armi pesanti tra Paesi non sia aumentata nei quinquenni 2011-15 e 2016-20, anzi si sia ridotta di circa lo 0,5%, i trasferimenti internazionali di armamenti si sono mantenuti vicini al livello più alto dalla fine della guerra fredda.

«È troppo presto per dire se il periodo di rapida crescita dei trasferimenti di armi dei due decenni precedenti si sia interrotto», ha affermato Pieter D. Wezeman, ricercatore senior del Programma di armi e spese militari del Sipri. E ha sottolineato che, sebbene i Paesi abbiano continuato a spendere somme enormi in armamenti durante la pandemia, potrebbero anche rivedere la loro posizione: «Per esempio, l’impatto economico della pandemia di covid-19 potrebbe far sì che, nei prossimi anni, alcuni Paesi riconsiderino le loro importazioni di armi. Ma, al tempo stesso, persino nel picco più alto della pandemia nel 2020, diversi Paesi hanno firmato ingenti contratti per le armi pesanti».

Ogni anno il commercio globale di armi smuove una cifra di circa 75 milioni di dollari. Secondo i dati pubblicati il 15 marzo dall’Istituto di Stoccolma, gli Stati Uniti vendono il 40% delle armi convenzionali del mondo. Inoltre cinque potenze controllano da sole tre quarti del mercato della vendita mondiale di armi. L’organismo competente sopracitato sottolinea un aumento significativo dei trasferimenti da parte di tre dei cinque principali esportatori di armi — Stati Uniti, Francia e Germania — e segnala che si è compensato in larga misura con la riduzione delle esportazioni di Russia e Cina. Inoltre le importazioni di armi da parte del Vicino Oriente sono aumentate di un 25%, con in testa soprattutto Arabia Saudita (+ 61%), Egitto (+136%) e Qatar (+ 361%).

Alexander Kuimova, coautrice del resoconto del Sipri sul commercio mondiale delle armi, segnala motivi politici precedenti per spiegare il lieve calo nella vendita delle armi nell’ultimo quinquennio, e soprattutto il fatto che la tendenza si è arrestata e il mercato degli armamenti a livello globale, per la prima volta, non è in costante espansione: i diversi programmi di produzione nazionale che sono stati messi in atto e anche i cambiamenti drastici nei rapporti tra alcuni soci tradizionali.

Le Nazioni Unite chiedono trasparenza nel mercato degli armamenti


Visto l’ingente volume delle vendite, è facile ottenere armi ovunque nel mondo. Ogni giorno circa 2000 persone muoiono a causa di armi da fuoco. La Commissione dell’Onu per il disarmo cerca di ridurre il trasferimento di armi ed esorta i Paesi membri a consegnare ogni anno un resoconto con le loro importazioni ed esportazioni, per promuovere la trasparenza, ma questo sistema è lungi dall’essere infallibile. Di fatto, nulla obbliga gli Stati a cooperare e si stima che entro 10 anni saranno state vendute armi per una cifra di 2.200 milioni di dollari a paesi coinvolti in un qualche conflitto bellico.

Una filiera spaventosa


Fabbricare ed esportare armi è legale, così come finanziarle: i grandi enti bancari internazionali sovvenzionano questo settore in tutto il mondo. Grazie a tali premesse, il potere commerciale e militare di questo settore è cresciuto sempre più, e la complessità della situazione richiede un approccio multidisciplinare in cui bisogna tenere conto di svariati fattori. Per esempio, è necessario distinguere le armi legali da quelle illegali e comprendere come quelle illegali, che in origine erano state prodotte legalmente, siano finite nelle mani dei gruppi terroristici. È lecito chiedersi il perché questo accade mentre il mondo guarda dall’altra parte e non presta sufficiente attenzione a questo preoccupante fenomeno.

Che cosa accade con le armi leggere che non si contabilizzano nelle vendite globali?


In realtà, i calcoli internazionali sulla vendita di armi si basano sul valore totale dei contratti, nascondendo così la presenza di armi piccole e leggere, tuttora utilizzate soprattutto nei conflitti africani, come la guerra civile nel Sudan del Sud. È complesso cercare di capire cosa si possa fare per tentare di interrompere questa filiera spaventosa.

Non possiamo tornare alla vecchia normalità, anelata nei momenti più duri della pandemia, né al futuro immediato del post pandemia chiamato nuova normalità, ma a quella che dovrebbe essere un’autentica nuova normalità: quella di un pianeta, una nazione, alcune città e paesi impegnati nel vero progresso, solidale e sostenibile. Una crisi come quella attuale può essere senz’altro un’opportunità per uscirne migliori ed è questa l’occasione migliore per dimostrarlo.

di Silvina Pérez