Tra le zone scure
Joyce Carol Oates è una scrittrice che si diverte a sorprendere il lettore, e per molte ragioni, la prima delle quali è la demolizione del mito che la quantità (pubblica romanzi dal 1963) sia dannosa per la qualità; la seconda, non meno dura a morire della prima, è che la spiritualità stia tramontando sull’orizzonte dell’occidente, non fosse altro perché contribuisce ad una tendenza depressiva e autodenigratoria, che nasconde tra l’altro la verità: la ricerca del divino nella nostra storia continua ad attraversare la scrittura, a cominciare dal premio Nobel 2020 Louise Glück.
A meno che il lettore non immagini questa ricerca come un cammino rettilineo scevro da impedimenti, crisi, ripensamenti e dolore. I romanzi della Oates nascondono un qualcosa che non può essere completamente rivelato, non in quanto segreto da non dire, ma perché ineffabile, impossibile da definirsi se non, paradossalmente, attraverso la consapevolezza della incompletezza delle parole.
Anche quando scrive da saggista, Oates non si smentisce, perché i temi della apparente vecchia America provinciale o periferica sono sempre lì, pronti a riemergere. E non come limite, anzi. Lo vediamo in questo Nuovo cielo, nuova terra. L’esperienza visionaria in Letteratura (Milano, Il Saggiatore, 2021, pagine 265, euro 22), una raccolta di scritti, tradotti da Viola Di Grado e pubblicati originariamente dal 1964 al 1974, in cui l’assolutamente altro emerge non come epifania dichiarata e annunciata, come manifestazione del bene supremo, anzi. Il problema, apparentemente solo novecentesco, della Shoah e dei campi staliniani, sembra dire la scrittrice di Lockport, viene da più lontano, da quella convinzione luciferina che la ragione fosse tutto e che rappresentasse l’unica autentica, salvifica dimensione umana. Dimensione contro la quale si scontrano gli eroi a rovescio di James Dickey, che nelle sue poesie e nel suo Dove porta il fiume, diventato poi film-cult come Un tranquillo weekend di paura per la regia di Martin Boorman, presenta un’umanità che regredisce ad una natura pre-estetica e pre-razionale a causa di una società eccessivamente delicata e permissiva che non ha più punti di riferimento. Non si tratta quindi solo di colpa individuale, sembra dire Oates, ma di uno sviluppo tutto cerebrale e anaffettivo, che presenta il conto soprattutto a chi non può godere i frutti di tanta raffinatezza o a chi viene colpito dalle conseguenze di quel “progresso”: l’inquinamento, la disoccupazione, l’alcolismo.
Esattamente quello che accade ad alcuni dei personaggi di Harriette Arnow e di Flannery O’Connor: nella prima, infatti, Oates individua la capacità di affrontare non solo gli effetti, ma anche la cause del dolore umano, in senso però opposto a quello del determinismo positivistico, dove esisteva la convinzione che ci fosse quel numero esatto di cause, tutte materiali, determinabili; in Arnow l’attacco all’industrializzazione inumana prende la forma della ricerca di senso attraverso l’aspirazione — frustrata — all’arte sacra che deve essere abbandonata per la necessità di realizzare oggetti in serie e di consumo, come accade in The Dollmaker.
Con una singolare vicinanza prospettica, solo apparentemente rovesciata, con il Coetzee di Le discipline umanistiche in Africa, in cui un uomo rinuncia a diventare artista per costruire crocifissi apparentemente tutti uguali, perché rappresentano la sofferenza per chi sta soffrendo e morendo in ospedale.
Nella narrativa di O’Connor si concretizza la catastrofe terrena dell’incontro tra umano e divino, nel senso che Oates fa risalire a Kierkegaard e Kafka e che però nell’autrice di Il cielo è dei violenti si manifesta più radicalmente e materialmente nello spargimento del sangue: i personaggi, talvolta deviati o apparentemente folli e solitari, sembrano soffrire con il Cristo, quasi come a dare ragione a Nietzsche, al di là del bene e del male programmati dal perbenismo borghese. Contro il quale si scaglia David H. Lawrence, un altro degli autori prescelti da Oates, qui presente più come poeta che come romanziere.
È per questo che quando arriva a Sylvia Plath, Oates sente la necessità di essere chiara: come per Virginia Woolf, il solipsismo, se è seducente dal punto di vista dell’arte, l’arte intesa nel senso unicamente estetico, allontana il soggetto non solo dal mondo, ma anche dall’altro.
«Lo specchio e mai la finestra è lo stimolo per quell’arte» è la geniale — e implacabile, tenendo conto del destino che accomunò Woolf e Plath — sintesi di un atteggiamento e di uno sguardo sul fuori-da-noi che proprio a causa della separazione e talvolta di un certo intellettualismo ha portato al conflitto e al negativo.
E allora non ci meraviglieremo nell’ammirare, è il caso di dirlo, per la capacità di andare oltre l’accademia e l’iper-razionalismo, la “rivalutazione” del negativo in Kafka, perché la sua visionarietà conserva nel profondo una sostanziale dimensione religiosa: il viaggio tenebroso dell’autore de Il castello è verso la terra dell’oltre-razionale, dell’inabissamento attraverso la normalità apparente, in quella zona d’ombra in cui è possibile intravedere improvvisamente i bagliori della tempesta divina. E della salvezza oltre le ap-parenze.
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