· Città del Vaticano ·

La Passione e il processo di Gesù nella lettura di Éric-Emmanuel Schmitt

Solo l’indifferenza è atea

Nikolay Nikolaevic Ge «Gesù e Pilato»
02 aprile 2021

Tra i romanzi recenti che si ispirano alla figura del procuratore di Giudea un posto di assoluto rilievo ha Il vangelo secondo Pilato di Éric-Emmanuel Schmitt, che è stato ripubblicato di recente dalle Edizioni San Paolo in una versione completata dall’aggiunta in appendice di un capitolo che ne ha accompagnato la scrittura, il cosiddetto Diario di un romanzo rubato.

Il romanzo di Schmitt, con la sua interessante problematica religiosa, è costituito dapprima da un prologo in cui il narratore è lo stesso Yeshua, che nel culmine tenebroso del Getsemani ripercorre il suo cammino esistenziale e si interroga: «Questa sera, la morte mi attende in questo giardino. Gli ulivi sono diventati grigi come la terra. I grilli fanno l’amore sotto lo sguardo benevolo di una luna ruffiana. Vorrei essere uno di quei due cedri blu, i cui rami servono da asilo notturno a nugoli di colombe e ospitano nella loro ombra diurna piccoli mercati chiassosi. Come loro vorrei mettere radici, senza preoccupazioni, e dispensare felicità. Invece non ho fatto che seminare granelli che non vedrò né germogliare né sbocciare. Resto in attesa della coorte che verrà ad arrestarmi. Padre mio, dammi forza in questo frutteto indifferente alla mia angoscia, dammi il coraggio di andare fino in fondo a quello che, per follia, ho creduto essere il mio compito...».

Viene poi il vero e proprio vangelo secondo Pilato, l’inchiesta innescata dalla scoperta che il corpo di Yeshua è scomparso dal sepolcro. Il capitolo è strutturato nella forma epistolare di una ventina di lettere indirizzate dal procuratore al fratello Tito a Roma. Esso si svolge con ritmo serrato.

In un passo significativo, che ricorda il Santucci di Orfeo in paradiso o di II bambino della strega, Pilato dichiara: «Mi sono segregato nel mutismo e nella sordità. Non provo altro che indifferenza per tutto quello che mi viene riferito, descritto, richiesto. Conoscevo l’indifferenza dei disincantati, di coloro che non si lasciano più sorprendere da nulla, ma ignoravo il genere di indifferenza che mi ha colpito: l’indifferenza di chi è stato turbato, di chi, sorpreso una volta con troppa violenza, non vuole più essere sorpreso una seconda volta. Il mondo mi appare pericoloso, nuovo, imprevedibile; preferisco ritirarmi nel guscio. Immagina un bambino che, dopo essere uscito dal ventre dove si trovava così bene, dopo aver gridato perché fa freddo, dopo essersi sentito soffocare perché bisogna respirare, dopo aver visto tutto quel sangue, quelle croste, quei miasmi, quelle carni lacerate, quei dolori, dopo aver intravisto lo sguardo stupefatto del padre, estenuato della madre, orripilato dei fratelli, sospettoso della levatrice, afferra il cordone ombelicale e ci si arrampica dicendo: “Lasciatemi, io torno là dentro”. Ecco, io sono quel neonato, traumatizzato, appena nato e, nonostante tutto, già nostalgico del mondo che conosceva prima».

Più avanti, nel ricordare la reazione dell’imputato alla domanda su “che cos’è la verità?”, aggiunge: «L’avevo detto più per me stesso che per l’imputato. Mi stavo tranquillizzando. Ma, con mia grande sorpresa, quel giudeo mi aveva capito bene e si era messo a tremare. Ne ero rimasto sorpreso. Quell’uomo dubitava. I fanatici, in genere, soffocano i loro dubbi ribadendo la loro fede. Al contrario, Yeshua si rimetteva in discussione con estrema sincerità. Sembrava rendersi conto che credere non è sapere. Sembrava temere di aver percorso un itinerario completamente sbagliato. Intuiva che io lo giudicavo un pazzo illuminato e si chiedeva, con radicale onestà, se per caso non avessi ragione...».

Ed ecco che finalmente si arriva alla necessaria conclusione: «Nel caso di Yeshua ho cercato di salvare la ragione, di salvarla ad ogni costo contro il mistero. Ho fallito e ho capito che cera qualcosa di incomprensibile. Mi lamento spesso con Claudia: prima ero un romano che sapeva; ora sono un romano che dubita e mia moglie ride e batte le mani come se facessi per lei un numero da giocoliere. Dubitare e credere sono la stessa cosa, Pilato. Solo l’indifferenza è atea».

Il dubbio si rivela via alla fede.

(...) È il caso di sottolineare come, a preparare la conclusione di Schmitt a proposito del dubbio come via alla fede, sia il celebre interrogativo, l’eterna irresolubile domanda del vangelo di Giovanni: «Che cos’è la verità?» (18, 38).

Anche il Pilato di Bulgakov si trova a porre la stessa domanda riflettendo: «O Numi! Gli sto chiedendo delle cose che non centrano col processo... Non riesco più a dominare la mente...».

E, in L’onore di Israel Gow di Chesterton, il protagonista dice: «Dieci filosofie false possono adattarsi all’universo, dieci false teorie possono adattarsi al castello di Glengyle. Ma noi vogliamo la vera spiegazione del castello e dell’universo».

La verità per il cristiano è una. È significativo il fatto che, nel vangelo di Giovanni, Pilato pronunci la famosa domanda: «Che cos’è la verità?», senza aspettare risposta, come si comprende anche dalla frase immediatamente successiva: «Detto questo uscì di nuovo verso i giudei».

Su questo è opportuno soffermarsi. Pensiamo a Schmitt e al suo Diario di un romanzo che costituisce l’ultima parte de Il vangelo secondo Pilato. In esso l’autore prima afferma chiaramente a proposito di Gesù: «Nel mio libro, lo vorrei innanzitutto uomo, poi forse Dio...». Poi aggiunge: «Le Chiese non hanno mai voluto parlare dei dubbi di Gesù, motivate forse dalla preoccupazione di presentare una versione semplice per persone semplici. Che peccato! Per questo motivo, esse dimenticano il coraggio di Gesù». Quindi conclude: «Sino alla fine il mio Gesù resta uno spirito che dubita, uno spirito finito che si sente chiamato dall’infinito, ma non è sicuro di nulla: una luce naturale che si nutre della luce rivelata, ma conserva un discorso umano».

Appunto nel Diario di un romanzo è sottolineata, a conferma della loro credibilità, la differenza fra i quattro testi evangelici: «La divergenza tra i quattro testi evangelici, la loro qualità molto disuguale, o addirittura le loro contraddizioni, mi turbavano pur appassionandomi. Durante un processo il fatto che i racconti non si armonizzino dimostra generalmente la sincerità dei testimoni... Allo stesso modo in psichiatria, si sa che un soggetto traumatizzato vittima di una violenza non racconterà mai in modo identico l’aggressione... A dirla breve, le difficoltà procuratemi dai testi disparati dei vangeli mi spingevano a credere in essi».

di Sabino Caronia