· Città del Vaticano ·

Erasmo e la lettura dei Vangeli

Quando inizia la modernità?

Holbein il Giovane «Ritratto di Erasmo» (XVI secolo)
01 aprile 2021

È stato autorevolmente scritto che la modernità comincia con una traduzione: quella del Nuovo Testamento in tedesco, a opera di Martin Lutero, nel 1522. L’affermazione è condivisibile, ma va integrata con una, parallela, ancor più fondamentale: la modernità comincia con un’altra traduzione, ovvero con la nuova traduzione latina del Vangelo, e soprattutto con l’edizione critica del testo greco, a opera di Erasmo da Rotterdam, nel 1516. Il riformatore tedesco, infatti, condusse la sua versione proprio su questa edizione critica, la graeca veritas, come la definiva il principe degli umanisti, tanto che gli studiosi sono concordi nell’affermare che, senza Erasmo, non ci sarebbe stata neanche Riforma. Ciò è tanto più vero, perché non si trattò solo di un’operazione di “pulizia”, per così dire, filologica, dopo la quale la cristianità non fu più la stessa, ma a essa si accompagnò strettamente l’esigenza di ristabilire lo spirito vero del Vangelo, depurandolo dalle scorie che gli si erano accumulate sopra nel corso dei secoli, e ciò vale per Erasmo, prima ancora che per Lutero.

Ne troviamo ulteriore conferma dalla recente edizione delle Prefazioni ai Vangeli di Erasmo da Rotterdam, con testo latino a fronte, a cura di Silvana Seidel Menchi (Milano, Einaudi, 2021, pagine 180, euro 24). In questo prezioso volumetto la curatrice, cui già dovevamo importanti studi sull’umanista olandese, ha raccolto quattro prefazioni ad altrettante edizioni del Nuovo Testamento curate da Erasmo: da quella princeps, bilingue, del 1516, a una, più economica, del 1520; a una esposizione letterale del Vangelo di Matteo, solo in latino, del gennaio 1522; e, infine, a un’ulteriore maneggevole ristampa del Nuovo Testamento, nell’agosto dello stesso anno.

In queste prefazioni, diverse, ma tutte con un carattere di esortazione alla conoscenza diretta del testo, l’autore non solo polemizza contro le distorsioni che le scorrette “letture” dell’originale hanno subìto, ma si fa paladino di un vero e proprio “ritorno al Vangelo”, quale unico testo fondante la fede cristiana, che tutti i cristiani che devono seguire, lasciando da parte quelle usanze, norme, prescrizioni, ecc. , che nei secoli sono state introdotte dalla Chiesa, e che l’umanista olandese non si perita di chiamare «giudaiche», ovvero estranee al messaggio di libertà proclamato dal Cristo. Impossibile non riconoscere qui lo stesso contenuto dello scritto di Lutero del 1520, Sulla libertà del cristiano.

Sempre sulla base della necessità di una corretta lettura del Vangelo, nella prefazione del gennaio 1522, Erasmo propone un’alternativa alla circolazione della Scrittura nelle lingue volgari, suscettibili di errori di traduzione: è necessario che tutta la cristianità sia messa in grado di leggere e comprendere il latino, abbia nozioni di greco e sia non del tutto digiuna di ebraico. Un’idea che a noi appare certamente utopica, ma che dà la misura del desiderio di riforma che animava l’autore. Ciò è ulteriormente avvalorato da una proposta avanzata nello stesso scritto: l’introduzione di un nuovo rito nel percorso di fede del cristiano, secondo cui gli adolescenti avrebbero dovuto essere chiamati a confermare i voti battesimali con una cerimonia solenne, ad ampia partecipazione popolare. Una proposta, questa, che sollevò, come ovvio, lo sconcerto e la condanna da parte dei teologi, che vi videro il tentativo di introdurre una sorta di nuovo sacramento.

Il rapporto di Erasmo con i teologi e con la teologia, fu, del resto, piuttosto conflittuale, dato che anche per l’umanista olandese il Vangelo contiene una concezione della vita, non una teologia — come diceva anche Simone Weil —, e ai teologi di professione Erasmo rimprovera da una parte l’ignoranza delle lingue, ebraica, greca e, in minor misura, latina, e, dall’altra, la boria e la presunzione di voler scrutare e descrivere la realtà divina con le armi della filosofia Scolastica, impelagandosi così in astrusità e sofismi di ogni genere. A suo parere, invece, tutti i cristiani devono essere in certo senso “teologi”, ma sulla sola base del Vangelo, che rappresenta la vera filosofia, la filosofia di Cristo.

Siamo qui giunti a un punto davvero cruciale. Il lettore contemporaneo non può non restare sconcertato di fronte a questo sintagma, “filosofia di Cristo”, ai nostri giorni del tutto inconsueto, che continuamente ricorre nei testi che presentiamo. Il fatto è che per Erasmo la concezione e la prassi della vita cristiana non è dissimile da quella della grande filosofia classica: «Che le anime sopravvivono ai corpi, e che ricevono un premio o un castigo in base ai meriti della vita che hanno vissuto, lo insegna, tra gli altri, il Socrate dei dialoghi platonici. Ci insegna che bisogna distogliere l’animo dall’amore delle cose visibili per indirizzarlo al gusto delle cose autentiche e durevoli. Ci insegna che la morte non è da temere, per chi abbia rettamente vissuto, ma piuttosto da desiderare. Ora, non c’è forse corrispondenza tra questi insegnamenti e i principî del Vangelo?», scrive, ad esempio. Ciò che distingue la filosofia di Cristo da quella degli altri filosofi, sta nel fatto che egli, più di ogni altro, testimoniò con la vita tutte le virtù, che in lui solo si manifestano perfettamente. Egli fu, dunque, l’insegnamento, il «discorso» di verità, concentrato e ridotto in compendio, che Dio ha fatto sulla terra. Erasmo appoggia questa sua “lettura” della figura del Cristo sulla traduzione del greco logos, che apre il Vangelo di Giovanni, con «sermo» — discorso, appunto — invece che col tradizionale verbum. Non meraviglia affatto che su questo problema filologico si scatenasse un’accesa disputa teologica.

È qui che Lutero ed Erasmo si oppongono radicalmente, giacché il primo non perdona al secondo il fatto di avere, a suo parere, ridotto il cristianesimo a una filosofia, tanto da «render vana la croce di Cristo». A chi scrive queste righe, che un quarto di secolo fa tradusse in italiano le prefazioni alla Bibbia del riformatore tedesco, viene spontaneo il confronto tra queste prefazioni erasmiane e quelle, parallele, di Lutero, che, paradossalmente, proprio sul testo approntato dall’umanista olandese aveva lavorato. Un confronto sulla figura del Cristo tanto interessante sul piano strettamente storico, quando su quello, certo più rilevante ai giorni nostri, schiettamente religioso.

di Marco Vannini