· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

Copertina

Nascita e morte,
cose di donne

Gustav Klimt «Morte e Vita» (1908-1915) Leopold Museum, Vienna
03 aprile 2021

Due miracoli collegati, soprattutto oggi che la pandemia imponendo l’isolamento accentua la solitudine


La nascita è donna. Il miracolo della nascita non può avere luogo senza che il corpo della donna si faccia grembo accogliente e custode, fino al passaggio alla luce.

Nei momenti cruciali la donna che partorisce è aiutata da altre donne: madre, sorelle, amiche, vicine. La levatrice è donna. La femminilità è generatrice e maieutica. L’inizio della vita è reso possibile, incoraggiato, accompagnato da ventre, mani, braccia, voci, canti, preghiere, gesti, cure femminili.

E questo vale in ogni cultura e in ogni tempo.

La stessa storia della salvezza, per i credenti, comincia così. Da una incarnazione, dal passaggio per la porta stretta di un corpo di donna e dalla tenerezza di un tocco delicato e accogliente.

Forse per la stessa ragione, come recita il detto di un’isola della Guinea Bissau, anche «le cose della morte sono cose di donne».

E anche nella storia della salvezza sono le donne che si prendono cura di Gesù che va a morire (Veronica che gli asciuga il volto sulla via del Calvario), ne accompagnano il transito fedelmente, ai piedi della croce (le tre Marie), piangono sul suo corpo morto (come nella ricca iconografia del compianto sul Cristo morto, da Giotto a Mantegna) assistono alla deposizione nel sepolcro, ricevono dall’angelo l’annuncio della resurrezione.

Le donne danno testimonianza e annuncio del miracolo della salvezza, che è per tutti: nascita, morte, resurrezione come passi di un’unica via, dove la morte è ponte tra la vita mortale, nel tempo, e la vita immortale, nell’eterno.

È alle donne che questo mistero è consegnato; sono loro che lo testimoniano con la loro capacità di generare e lasciar andare, affidando alla vita il frutto del loro grembo. Una dimensione teologica che ricuce il corpo e il soffio dello spirito, la terra e il cielo, l’inizio la fine e l’eterno in un unico, grande quadro di salvezza.

Molto ancora va interrogato questo mistero.

Passaggi (non più) accompagnati


In ogni cultura il mistero della morte, del transito è sempre stato al centro di una elaborazione culturale collettiva. Ma a partire dalla modernità, che ha liquidato tanta parte di questa cultura come infantilismo e superstizione, la cornice di senso dentro la quale interpretare e rielaborare questa dimensione ineluttabile dell’esistenza è venuta meno. Lo ha scritto, tra gli altri, il sociologo tedesco Norbert Elias ne La solitudine del morente: nelle società che si definiscono avanzate ci si ammala, si invecchia e si muore sempre più spesso da soli, isolati dalla comunità, in apposite strutture specializzate che medicalizzano la fine dell’esistenza e rimuovono il malato e l’anziano dallo sguardo altrui, lasciandolo in balia dell’angoscia.

Una condizione che l’avvento del Covid ha ulteriormente radicalizzato.

È la dimensione del rito a venire meno, quella forma particolare di azione sociale collettiva la cui etimologia affonda nell’idea di ordine, corrispondenza, legame. Il rito produce senso legando il cielo e la terra, l’immanente e il trascendente, e dentro questa alleanza crea le condizioni per un più profondo legame tra le persone. È un linguaggio che parla attraverso elementi sensibili (il corpo, i simboli), dove ogni cosa significa se stessa e più che se stessa; una sequenza di gesti che connette la comunità e le generazioni, in una storia condivisa che permane oltre ciò che passa.

Come si viene al mondo grazie ad altri e con altri, così anche la morte va accompagnata. E sono soprattutto le donne a presidiare questi momenti di passaggio e di trasmutazione.

I riti funebri sono tipicamente riti di passaggio e di accompagnamento al transito, caratterizzati dalla triplice struttura separazione/margine/aggregazione. La veglia sul defunto per elaborare il distacco, il rito di accompagnamento alla sepoltura, le preghiere per le anime dei morti che dalla loro nuova condizione possono vegliare sui vivi si inseriscono in questo schema che organizza la vita sociale nei suoi momenti più cruciali. Ma anche tutte le usanze che rinsaldano il legame tra il mondo dei morti e quello dei vivi, come quella presente in tante regioni d’Italia di “apparecchiare per i morti” nei giorni di novembre dedicati alla loro memoria, cucinando i loro piatti preferiti e scambiandosi ricordi, per tenere viva la loro presenza tra le generazioni.

In questo modo la morte, che pure è abisso e mistero, può essere resa parte del nostro quotidiano come una finestra di senso. È l’invito della poetessa Mariangela Gualtieri: «rendi familiare la morte col tuo abitarla».

I riti sono linguaggi per abitare la morte, per renderla familiare, per trasformare la lacerazione della dipartita in un nuovo legame tra cielo e terra, che rinsalda anche il legame tra chi resta.

È di questo legame misterioso ma pregnante che parla Cristina Campo in una delle sue poesie: «Io non prego mai per i morti, io prego i morti. L’infinita sapienza e clemenza dei loro volti – come si può pensare che abbiano ancora bisogno di noi? Ad ogni amico che se ne va io racconto di un amico che resta; a quella infinita cortesia senza rughe ricordo un volto di quaggiù, torturato, oscillante».

La secolarizzazione ha sgretolato la cornice di senso che collega la morte alla resurrezione, mentre l’individualizzazione ci ha lasciati soli nell’affrontare il momento del distacco, che diventa semplicemente una fine, una nientificazione, un dissolversi di ciò che è stato.

Banalizzare il rito, svuotarlo o ridicolizzarlo significa privare l’individuo di un appoggio collettivo e di un orizzonte di senso, lasciandolo solo con se stesso, schiacciato dall’angoscia e muto, senza speranza di fronte alla morte.

Cancellare il rito impedisce anche di vedere che la vita non è vera vita se pretende di rimuovere la morte dal proprio orizzonte come un’incomoda presenza, ma lo diventa solo se la assume come parte di sé.

Due miracoli, un paradosso


“I viventi” sono anche chiamati “i mortali”. La nostra esistenza si snoda tra il momento della nascita e quello della morte, “sorella nostra morte corporale dalla quale nulla homo vivente può scappare”, come ha scritto san Francesco.

Nascita e morte, due miracoli collegati. Due segni che continuano a destare meraviglia, stupore, sgomento; due brecce di irruzione dell’inaudito nella ripetizione della nostra esistenza, che la trasformano irreversibilmente; due simboli, due momenti di una storia più grande, gravida di mistero e speranza per tutti.

Se non ci fosse un legame, nemmeno il miracolo della trasformazione della morte in vita, che pure vediamo accadere attorno a noi se impariamo a riconoscerlo, sarebbe possibile: genitori che dalla perdita di un figlio iniziano un cammino di rinascita facendo qualcosa per altri; traumi che anziché distruggere aprono una possibilità inaudita di esistenza; vite dove l’aver perso tutto inaugura un passo nuovo e dischiude un orizzonte di pienezza.

Non dobbiamo perciò pensare vita e morte come una il contrario dell’altra. Il loro legame è paradossale, non risponde alla logica e al principio di non contraddizione. Ce lo dice il Vangelo (chi è disposto a perdere la propria vita la trova) e ce lo racconta anche il nostro tempo, carico di dolore e morte, sofferenze e angosce ma che vede anche fiorire tanta umanità, tanta capacità di resilienza nutrita dalla cura e dalla dedizione per i malati e i più fragili. Qualcuno ha perso la propria vita, ma paradossalmente l’ha salvata, l’ha resa intera, le ha dato un senso che non finisce con la morte del corpo ma rimane come una promessa di pienezza a cui altri possono prestare fiducia. Un segno che nutre la vita.

Paradossalmente, questo tempo dove la morte non può essere rimossa, dove ogni giorno l’informazione parte con i dati sui contagi e sui decessi, è tempo di rivelazione di una verità sulla vita. Lo scriveva Etty Hillesum nel suo Diario: «Io so, ora, che vita e morte sono significativamente legate fra loro». Due facce della stessa realtà che ci affratella tutti in un comune destino.

Se concepiamo la morte come sorella, anziché come nemica, il nostro sguardo sulla vita cambia.

Se le due sono legate, e se il legame non è di esclusione ma di unione paradossale, un ribaltamento di prospettiva diventa possibile, soprattutto quando la morte si fa sentire più forte - come in questo momento.

Intanto, dall’angolatura della morte la vita non appare come un dato ma come un dono. Come la condizione della trasformazione, di quel dinamismo che passa per la morte per affermare la vita (solo il chicco che muore dà frutto). «Muori e diventa!» scriveva Wolfgang Goethe. E così Rainer Maria Rilke: «La grande morte che ognuno ha in sé /È il frutto attorno a cui tutto cambia».

E poi, mentre considerare la morte dal punto di vista della vita genera angoscia, considerare la vita dalla prospettiva della morte fa vedere più vita, regala un’ampiezza nuova alla nostra esistenza che troppo spesso, schiacciata su un orizzonte di urgenza e immanenza, è pallida e spenta. Come nei versi di Patrizia Valduga: «Signore, da’ a ciascuno la sua morte, dalla tutta inverata dalla vita; ma dacci vita prima della morte, in questa morte che chiamiamo vita».

C’è una vita mortale e c’è una morte vitale. Separarle e rimuovere la morte, contrariamente a quanto abbiamo creduto, non fa bene alla vita.

Lo scriveva il gesuita scienziato e filosofo Teilhard De Chardin: «La morte è incaricata di praticare, fin nel più intimo di noi stessi, l’apertura necessaria».

E lo riconosce anche Etty Hillesum nel suo diario: «La possibilità della morte si è perfettamente integrata nella mia vita; questa è come resa più ampia da quella, dall’affrontare e accettare la fine come parte di sé. Sembra quasi un paradosso: se si esclude la morte non si ha mai una vita completa; e se la si accetta nella propria vita si amplia e si arricchisce quest’ultima».

Ora che la morte non può essere esclusa, che i nostri deliri di onnipotenza hanno subito uno scacco, che abbiamo capito che siamo tutti legati tra noi (è servito un virus per dimostrarlo) e che abbiamo bisogno di dare senso, insieme, a questo tempo forse possiamo gettare uno sguardo nuovo sulla vita. E imparare il movimento che suggerisce Cristina Campo in uno dei suoi versi: «Con lieve cuore, con lievi mani, la vita prendere, la vita lasciare».

di Chiara Giaccardi