· Città del Vaticano ·

Gli ultimi giorni dei monaci francesi raccontati dal film «Uomini di Dio» di Xavier Beauvois

Fino in fondo fedeli
alla missione

Una delle scene cruciali del film in cui i monaci maturano la loro decisione di restare a Tibhirine
27 marzo 2021

Nel film del 2010 Uomini di Dio (“Des hommes et des Dieux”), diretto da Xavier Beauvois, si parla di otto monaci francesi dell’ordine cistercense che vivono in un monastero fra le montagne del Maghreb algerino. In perfetta armonia con la comunità musulmana locale, condividono le gioie e le difficoltà di chi li circonda. L’equilibrio spontaneo della regione si incrina quando un gruppo di fondamentalisti uccide alcuni lavoratori stranieri. Ci vuole poco perché l’attenzione dei terroristi si concentri sul monastero, malgrado chi lo abita svolga solo funzioni di preghiera e di meditazione, e non di proselitismo. Quando gli otto religiosi entrano in contatto con il gruppo armato, lo fanno con la stessa naturalità che contraddistingue i loro rapporti quotidiani, prestando anche soccorso a un ferito. La loro vita sembra dunque proseguire come sempre, tanto che decidono di rifiutare la proposta di una scorta da parte dell’esercito. Se le semplici abitudini del monastero rimangono immutate, la tensione nella regione continua però a crescere, e alcuni cittadini cominciano a scappare. A questo punto i monaci sono costretti a interrogarsi sull’opportunità di abbandonare il luogo. Il priore Christian (Lambert Wilson) propone di rimanere per proseguire la missione cui sono stati preposti, ma in un primo tempo il timore generale sembra avere la meglio. La decisione sarà graduale e sofferta, eppure alla fine quasi unanime. Il film di Beauvois ci presenta otto monaci ma soprattutto otto uomini. Ognuno con le proprie caratteristiche, le proprie qualità e i propri limiti. Li vediamo assorbiti nella devozione, ma anche allegri o litigiosi. In tutta la loro umanità, insomma. Tanto che quando il pericolo si affaccerà alle porte del monastero, la prima cosa che ci si chiederà è come faranno a farvi fronte. Presi uno per uno, forse nemmeno loro saprebbero dare una risposta. Tutti insieme, però, la troveranno.

Pur ispirandosi in modo esplicito alla tragedia di Tibhirine del 1996, quando dei monaci francesi furono vittime del Gruppo islamico armato (Gia) in un’Algeria attraversata da profonde divisioni, il film vuole essere solo in superficie un’opera di cronaca storica. Anzi, la sua bellezza risiede soprattutto nel modo in cui si passa sottilmente e in modo impercettibile da uno sguardo naturalistico e quasi documentario a una dimensione sempre più allusiva e metaforica. Gli stessi terroristi vengono mostrati in modo diretto solo in un paio di occasioni, e in atteggiamenti non dichiaratamente bellicosi, salvo poi essere relegati sempre più sullo sfondo, fino a diventare quasi la trasfigurazione del tormento interiore dei protagonisti.

L’idea vincente di Beauvois è quella di giocare sul contrasto fra una violenza a lungo invisibile ma perennemente minacciata e un paesaggio che trasmette al contrario l’armonia di uno stanziamento pacifico e felicemente consolidato. Così da far apparire quella violenza ancora più insensata. Le istanze ideologiche — riconoscibili soprattutto nel sottolineare come un terreno comune fra fedeli di religioni diverse sia assolutamente possibile — vanno di pari passo con quelle filosofiche, che attengono alla natura stessa del ruolo che i protagonisti hanno nel mondo: la libertà è di chi riesce a fuggire o di chi rimane saldamente ancorato alla propria missione? È giusto aderire al proprio ruolo fino alle estreme conseguenze?

L’intero film è d’altronde disseminato di sottili corrispondenze che compensano un tessuto narrativo e drammaturgico volutamente ellittico e avaro di dettagli realistici. I paesaggi e gli ambienti su cui la cinepresa indugia sempre un attimo in più di ciò che è consueto, lasciandoli respirare di vita propria anche quando i personaggi hanno lasciato la scena, è infatti strettamente legata alla vita dei monaci cistercensi, votata, fra l’altro, alla contemplazione della natura. Così come l’unanimità della loro decisione finale fa da pendant alle numerose scene in cui li vediamo impegnati nella preghiera corale. E proprio la scena cruciale della presa di coscienza di ciò che è giusto fare, ci viene raccontata senza una riga di dialogo, sulle note del Lago dei cigni, come il silenzio e il canto liturgico accompagnano la vita dei monaci. E se alla fine qualcuno disattenderà la promessa fatta reciprocamente, ciò non farà che conferire ulteriore umanità al loro sacrificio, raccontato senza cadere mai nella trappola del facile eroismo. «La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno», si legge d’altronde nell’umanissimo e per questo ancora più toccante testamento spirituale del vero frère Christian.

È forse per questo pudore che a tratti il film dà l’impressione di osare meno di quanto avrebbe potuto, ma le ultime due o tre sequenze riescono a dare al risultato complessivo il colpo d’ala che ci si aspettava, con una soluzione enigmatica ma anche poeticamente rasserenante.

di Emilio Ranzato