· Città del Vaticano ·

La conversione dello storico dell’antichità Giuseppe Flavio

«Lui era il Cristo!»

«Sacco di Gerusalemme» (rilievo dell’Arco di Tito, a Roma)
22 marzo 2021

Nell’ultimo libro di Luciano Canfora


Il Testimonium Flavianum costituisce la più chiara testimonianza della vita di Gesù tramandata da uno storico estraneo alla tradizione cristiana, l’ebreo romanizzato Giuseppe Flavio. A lui e al documento che ha fatto sì che l’intero corpus della sua produzione in greco si sia salvato è dedicato l’ultimo libro di Luciano Canfora, La Conversione, come Giuseppe Flavio fu cristianizzato (Roma, Salerno Editrice, 2021, pagine 140, euro 18).

La figura di Giuseppe Flavio è controversa. Durante la rivolta giudaica destinata a terminare nel 70 d.C. con la presa di Gerusalemme e la distruzione del tempio da parte delle legioni comandate da Tito, Giuseppe si trovò al comando delle forze ebraiche poste a presidio della fortezza di Iotapata. Investita dalle truppe romane e circondata, piuttosto che la resa, la guarnigione scelse il suicidio collettivo da realizzarsi attraverso l’uccisione reciproca. Rimasto l’ultimo ancora in vita, anziché darsi la morte, il futuro storico della guerra allora in corso si consegnò ai romani. Riuscito a farsi ammettere alla presenza di Vespasiano, in quel momento alla testa delle legioni romane nel quadrante orientale del Mediterraneo, gli predisse che sarebbe divenuto a breve imperatore.

Il generale considerò l’affermazione come un goffo tentativo di guadagnarsi la benevolenza del vincitore: a Roma regnava Nerone e non c’erano segnali della profonda crisi che avrebbe travagliato l’impero nell’anno successivo, durante il quale si succedettero sul trono Galba, Ottone, Vitellio e infine proprio Vespasiano, che si ricordò della profezia fattagli da Giuseppe e gli manifestò la propria stima e riconoscenza.

Rimasto nel campo romano insieme al nuovo comandante Tito, figlio di Vespasiano, lo storico ebbe modo di seguire da vicino l’intero conflitto che raccontò nella Guerra Giudaica, la prima delle sue grandi opere, scritta dopo essere giunto a Roma al seguito dei vincitori ed essere stato accolto nell’ambiente di corte dove gli venne riconosciuto l’appellativo di Flavio. Ad essa fece poi seguito Le Antichità Giudaiche, una storia del popolo ebraico scritta rivolgendosi ai letterati romani e basata soprattutto su fonti bibliche e su informazioni personali.

Fra queste ultime si trova la citazione dell’episodio della condanna a morte di Gesù da parte di Ponzio Pilato, al quale era stato denunciato dai notabili ebrei. Nelle poche righe dedicate all’accaduto sono comprese alcune frasi chiave, tra le quali spiccano «Lui era il Cristo!» e «A costoro riapparve vivo dopo tre giorni». Vengono dunque proclamati sia la divinità di Gesù che la sua risurrezione. Si comprende come mai questo testo sia stato definito da alcuni un quinto vangelo, importantissimo in quanto riconoscimento proveniente dall’esterno dell’ambiente cristiano. Proprio il valore attribuito dalle comunità cristiane all’opera di Giuseppe Flavio fece sì che, caso unico nella storiografia di lingua greca del periodo romano, la sua opera si sia salvata per intero e sia giunta completa fino a noi.

Con la maestria che gli viene unanimemente riconosciuta, Canfora affronta la vicenda di Giuseppe Flavio e del Testimonium Flaviarum dal punto di vista filologico, approfondendo tutte le questioni che lo riguardano. Lo studioso considera il problema delle interpolazioni che il testo avrebbe subito nel corso della tradizione amanuense, in particolare nella frase decisiva «Lui era il Cristo!», nella quale potrebbe essere stata eliminato il termine enomizeto dopo en. Questo corrisponderebbe in latino al passaggio da erat a credebatur esse, un meno impegnativo «era ritenuto il Cristo», rispetto al definitivo riconoscimento della natura divina di Gesù che i copisti cristiani non avrebbero esitato a fargli proclamare. Sia in Origene che in san Girolamo si trovano tracce piuttosto convincenti che spingono in questa direzione.

Canfora sostiene poi con decisione l’attribuzione a sant’Ambrogio della versione in latino della Guerra Giudaica comunemente indicata come “Egesippo”: molteplici segnali concordano infatti nell’indicare nel futuro vescovo di Milano l’autore della traduzione, che per molti aspetti viene condotta con la massima libertà e una grande attenzione a evidenziare il collegamento tra l’uccisione di Cristo e la distruzione del Tempio.

L’attenzione minuziosa alla consequenzialità delle deduzioni si unisce nel testo di Canfora a una straordinaria conoscenza delle fonti e delle analisi che ne sono state fatte nel tempo. Una scrittura scorrevole, non priva di un gusto sottile per l’ironia, accompagna il lettore lungo un percorso di estremo interesse, che racconta delle origini del cristianesimo, delle sue capacità di accogliere ogni segnale positivo proveniente dall’esterno e della distanza temporale che ci separa dal momento nel quale le Sacre Scritture si sono consolidate, separandosi in modo definitivo dai testi profani. Senza che questi ultimi perdano di valore e di interesse per chi si interroga in relazione all’esperienza umana del Cristo.

di Sergio Valzania