· Città del Vaticano ·

La settimana di Papa Francesco

Forte e tenero
il paradosso di Giuseppe

Raffaello Sanzio, «Sacra Famiglia con palma» (1506, particolare)
18 marzo 2021

Nella solennità del patrono della Chiesa universale si apre l’Anno speciale «Famiglia Amoris laetitia», tempo di «slancio pastorale rinnovato e creativo per mettere la famiglia al centro dell’attenzione della Chiesa e della società»


È singolare il fatto che l’8 dicembre 2020, data della lettera apostolica Patris corde scritta da Papa Francesco in occasione del 150° anniversario della dichiarazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale, sia anche la data del messaggio per la 54° Giornata mondiale della pace 2021, dal titolo eloquente «La cultura della cura come percorso di pace». L’8 dicembre, però, la Chiesa festeggia la solennità dell’Immacolata Concezione: è chiaro che non si tratta di un caso, considerato che teologicamente il mistero della vita di Giuseppe è intimamente legato al mistero della vita della Vergine Maria e di Gesù.

Al di là di queste considerazioni ravvisiamo come nella Patris corde si delinei il volto della tenerezza paterna di Giuseppe nei confronti di Gesù, nonché della tenerezza sponsale nei confronti della Vergine Maria. Nel messaggio per la Giornata mondiale della pace 2021, invece, constatiamo come tale tenerezza si declini in azioni concrete di accoglienza, responsabilità, premura e cura dei membri della santa Famiglia, soprattutto nelle situazioni di particolare disagio e difficoltà. Tutto questo nella più ampia cornice delle indicazioni dell’esortazione Evangelii gaudium, nella quale Papa Francesco, in contrasto con la cultura dell’indifferenza, del consumismo, dello scarto e dell’egocentrismo, propone la “cura” di riscoprirsi e lasciarsi coinvolgere dalla rivoluzionaria tenerezza di Dio iniziata dall’incarnazione del Figlio unigenito. Possiamo ben dire, allora, che Giuseppe si è lasciato toccare e coinvolgere dalla tenerezza del Dio dei padri, che si è manifestata anche nel volto di Maria.

Oggi sembra che la parola tenerezza appartenga a una cultura del passato o addirittura a un mondo che non esiste più; eppure essa rappresenta una forza tale da sconvolgere le menti, i cuori e gli stessi eventi storici, poiché capace di un amore delicato che sembra debole ma che è in realtà forte. La domanda che è lecito porsi è come Giuseppe di Nazareth abbia potuto vivere nella sua esperienza di padre e di sposo il paradosso dell’essere forte nella tenerezza, come nel contempo viveva l’altro paradosso, cioè di essere forte nell’obbedienza. Le vicende evangeliche dei primi anni della vita di Gesù ci introducono a lumeggiare questi aspetti della vita e della missione di Giuseppe, poiché senza la sua premurosa tenerezza molto probabilmente non avremmo visto l’irruzione della tenerezza di Dio nel mondo.

Il bene è frutto della tenerezza misericordiosa di Dio e della collaborazione fedele dell’uomo. È noto che Giuseppe è responsabile del Bambino e della Madre dinanzi a Dio e alla storia. Quando l’angelo gli appare in sogno dicendogli di prendere il Bambino e sua Madre e fuggire in Egitto, lontano dalla minaccia del re Erode, Giuseppe senza esitazione obbedisce e fa secondo le indicazioni del messo celeste. Matteo dice che fugge in Egitto nella notte. Quanti pensieri avranno affollato la mente di Giuseppe in quei momenti; possibilità di insidie, pericoli, freddo e solitudine. Eppure la sua tenerezza va oltre anche a ciò che è necessario perché la salvezza degli altri si realizzi. Certamente avrà avvertito, nel contempo, sentimenti di paura e di fiducia, di debolezza e di fortezza. Come afferma Papa Francesco nella Patris corde la storia della salvezza spesso si realizza attraverso le nostre paure e debolezze: «Troppe volte pensiamo che Dio faccia affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, mentre in realtà la maggior parte dei suoi disegni si realizza attraverso e nonostante la nostra debolezza».

Ma anche nel viaggio di ritorno dall’Egitto in Israele, Giuseppe, nonostante le rassicurazioni dell’angelo circa la morte di Erode, riavverte ancora quei sentimenti di paura e fragilità, che spesso manifestano gli uomini e le donne di Dio, dinanzi alla possibilità di compromettere il Suo disegno di salvezza. Non si può affermare che la paura di Giuseppe sia motivata dalla sua poca fede nelle parole dell’angelo, poiché la sua obbedienza è stata sempre immediata. Nonostante ciò il comando del Signore non determina il luogo esatto dove recarsi una volta raggiunto Israele; Giuseppe non sa in quale città o luogo andare di preciso. Da uomo giusto e timorato di Dio, comunque, sa che la Giudea non può essere un luogo sicuro per il figlio e la sua sposa; c’è poco da fidarsi del nuovo re Archelào, educato alla corte di un padre tanto crudele.

La tenera protezione e custodia verso Maria e Gesù spingono Giuseppe a dirigersi verso la Galilea, a Nazareth, «perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: sarà chiamato Nazareno» (Matteo, 2, 23). In quelle regioni, probabilmente, Archelào aveva poca influenza. Ecco come la storia della salvezza, nel compimento delle profezie, si realizza anche nel saper accogliere la fragilità delle nostre paure con profonda tenerezza.

Giuseppe sa muoversi nelle “notti” dei momenti angosciosi della sua vita, perché vive alla luce del giorno la giustizia frutto della sua obbedienza alla Parola di Dio. Ma sa anche accogliere le proprie fragilità e paure in un’ottica di fede. Qui emerge l’uomo forte della sua premurosa tenerezza. Accogliere Maria nonostante l’estraneità della sua gravidanza e accettare le circostanze della fuga in Egitto con tutte le sue conseguenze, fa spiccare la sua premurosa custodia e tenerezza paterna, non nell’aspetto biologico e carnale, ma nel significato più profondo. Padre è infatti colui che custodisce, protegge, cura; è la figura umana che illustra al meglio quello che significa il prendersi cura da parte di Dio della nostra fragilità.

Dopo tutto possiamo dire che la paternità di Giuseppe è a immagine della paternità di Dio nei nostri confronti: nulla di biologico, ma autentica paternità. Giuseppe è il padre che non soltanto custodisce e provvede al bambino quando è giorno o quando è tutto facile; egli lo prende con sé nella notte, quando le difficoltà sembrano avere il sopravvento e si espandono le tenebre del dubbio, dell’insidia e della paura. Egli sa accompagnare la fermezza della sua presenza e dedizione alla dolcezza della Madre e alla debolezza del Bambino. È vero, allora, che la forza della tenerezza è la maniera migliore per toccare ciò che in noi è fragile. Solo nella capacità di accettare e accogliere dentro di noi la debolezza, le paure e le fragilità in un’ottica di fede e amore, la misericordia e la tenerezza di Dio si manifestano e operano cose prodigiose. Anche per ogni credente vale, perché paradigmatico, quanto ha vissuto la fortezza di Giuseppe: «Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che, in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande».

di Krzysztof Józef Nykiel
Reggente della Penitenzieria apostolica