· Città del Vaticano ·

I doni di una figlia al padre: il racconto di Roberto Corbella

Io e Chiara

 Io e Chiara  QUO-062
17 marzo 2021

«Su me e Chiara una cosa voglio dirtela subito: io non credo alle proprietà transitive. La sua straordinaria bellezza non viene certo da me». Cominciamo questo percorso lungo i sentieri delle forme sempre varie della paternità incontrando Roberto, papà di Chiara Corbella Petrillo. «Se guardo indietro nella mia vita, al mio stile sempre un po’ prudente, e anche alla tiepidezza della mia fede, mi domando spesso da dove Chiara abbia preso il suo incredibile coraggio, la sua determinata testimonianza di fede».  

Roberto Corbella, 71 anni, racconta in un misto di umiltà, ironia e punte di commozione, la straordinaria esperienza di padre di Chiara, scomparsa alla vista umana nel giugno 2012, e per la quale è ora in corso il processo di beatificazione. La storia è ai più nota. Chiara, cresciuta in un ambiente di fede pura e semplice, incontra Enrico a Medjugorje nel 2002. Sei anni dopo si sposano. Dalla loro unione nascono Maria Grazia Letizia e Davide Giovanni, che però sopravvivono solo pochi minuti alla nascita, per via di gravi malformazioni congenite. Nel 2011 nasce finalmente Francesco, sano e bello. Ma al quinto mese della gravidanza a Chiara viene diagnosticato un tumore. Chiara inizia le cure e subisce anche un intervento ma rimanda ogni terapia e ulteriore intervento che possa mettere a rischio la salute di Francesco; la seconda e più invasiva operazione e tutte le terapie affrontate dopo la nascita di Francesco non riusciranno però a bloccare il tumore. Chiara si spegnerà il 13 giugno del 2012. Nel settembre del 2018 il cardinale vicario di Roma Angelo De Donatis ha ufficialmente aperto il processo canonico per la sua beatificazione. 

«Sai, in questi anni tante volte sono stato chiamato a parlare anche in pubblico di Chiara. Ma questa è la prima volta che mi si chiede di parlare di me, della mia esperienza, decisamente particolare, di paternità. E questo mi imbarazza e confonde molto».

«A volte mi sembra di essere passato repentinamente da “figlio di...” a “padre di...”».

Ogni padre è stato anche figlio. E la paternità si nutre molto dell’esperienza pregressa di figlio.

 «Sì, è vero. O perché emuli lo stile dei tuoi genitori, o perché te ne distacchi e lo contesti, ma il modo in cui “fai” il padre dipende in grande misura da come sei stato figlio. Per me è valsa più la seconda ipotesi: i miei erano due gran belle persone e mi hanno circondato di affetto, però sai, tra noi non c’è mai stata quella intimità sentimentale e spirituale, che invece poi io ho cercato di instaurare con le mie figlie, erano altri tempi, il pudore e la discrezione avevano sempre il sopravvento. Con le mie figlie è stato diverso, sai, ancora da grande, già sposata, quando Chiara veniva a trovarci era ancora abituata a sedersi sulle mie ginocchia». 

«Quindi sei stato un papà molto presente?».   «Beh, io ci ho provato in tutti i modi. Poi sai c’è sempre una differenza tra ciò che noi sentiamo di dare e quello che gli altri percepiscono di ricevere. In particolare i figli hanno sempre di noi un’immagine un po’ diversa da quella che presumiamo di dargli. Però credo di essermi dedicato abbastanza nella relazione con le mie figlie. Magari non tempi lunghissimi, ma quando ero con Elisa e Chiara, cercavo di alimentare la loro curiosità aiutarle a guardare lontano e cogliere la bellezza in ciò che incontravamo. E questo al netto di un lavoro che mi assorbiva molto ma che ci ha anche dato l’opportunità di fare lunghe vacanze insieme in giro per il mondo».   

Un lavoro, quello di Roberto che in un certo senso è stato anch’esso esercizio di paternità. Per 40 anni ha diretto un’organizzazione turistica che ha avuto il merito di introdurre alla cultura del viaggiare le giovani generazioni. «Fino agli anni ’70 il viaggio, più che un’esperienza formativa e di incontro,   era uno status symbol per i benestanti . Poi con la deregulation delle tariffe aeree milioni di giovani hanno imparato a viaggiare e noi li abbiamo aiutati. Hai ragione, in un certo senso anche quella è stata un’esperienza di paternità. Perché un buon padre è quello che lascia i figli “partire”. Partire per la vita. I figli non si posseggono. Anche questo l’ho imparato da Chiara».

 «Cos’altro credi di aver imparato da Chiara?».   «Mah... tante cose. Di molte mi sono accorto solo dopo. Per esempio il coraggio. Lei è una tosta. (Roberto, non se ne accorge, ma spesso in questa conversazione parla di Chiara usando l’indicativo presente, ndr). Sai, quando le comunicarono che era ormai entrata nella fase terminale, cominciò ad invitare più frequentemente amici e parenti nella nostra casa in campagna. Questi arrivavano mesti e silenziosi come, pensavano, l’occasione avrebbe richiesto, ma poi ne uscivano frastornati con l’idea di aver incontrato una famiglia di pazzi. Un’allegria contagiosa che sconfinava a volte nella baldoria, Chiara scherzava perfino della sua condizione. La forza della Fede si esprime nella gioia: la tristezza non è un sentimento cristiano. Semplicemente perché esclude la Speranza. L’immagine assai diffusa di Chiara sorridente con la benda su un occhio è in un qualche senso iconica di questo suo approccio alla vita. Al tempo stesso ci tengo a smontare una qualsivoglia immagine “santino” di mia figlia: Chiara era una ragazza normale, molto spontanea, con una vita normale, come tante».

«La nostra casa è sempre stata un porto di mare, fin da quando erano piccole c’è sempre stata un andirivieni di giovani. Socialità ed empatia erano la cifra della nostra giovane famiglia. Che si estendevano a tutti, anche a tutti gli animali che abbiamo sempre avuto. Sai, avevamo un gatto che ogni giorno usciva da casa da solo e andava a prendere Elisa fuori scuola per poi tornare insieme...».

Poi ci sono anche le cose che vi differenziavano. «Sì, io penso — e non lo dico per falsa umiltà — ma gli aspetti più belli di Chiara vengono sicuramente da mia moglie Anselma. È da lei che ha ereditato la sue belle sensibilità e creatività, e il gusto per l’arte, per il bello. Per la musica e per il disegno. Ad ogni Natale e compleanno disegnava e scriveva dei bellissimi biglietti che conservo gelosamente. Ma soprattutto Anselma è stata la chiave di accesso alla fede per entrambe le ragazze. Fin da piccole ha insegnato loro, con l’aiuto della loro Comunità, a curare lo spazio necessario — almeno mezz’ora al giorno — alla preghiera. Che non è mai stata una sequela di parole ma un vero spazio di dialogo quotidiano aperto e franco con il Signore. Sono sempre stato incuriosito da questo approccio che le ragazze avevano con la preghiera, mi colpiva la naturalezza di una pratica che per loro era come il mangiare, il bere e il dormire; una pratica, lasciami dire, di igiene spirituale. Più in generale posso dire che il cristianesimo di Chiara, come di tutti noi in famiglia, non indulgeva mai all’identitarismo. Per lei l’importante era mantenere una coerenza di vita, far capire, non convincere».

«Io capisco che tu sia interessato oggi al mio ruolo di padre, ma tutta questa storia straordinaria che ti sto raccontando si regge in primo luogo sul ruolo di Anselma, la mamma, mia moglie».

Come vi siete conosciuti? «Anche qui la vita, o meglio la Provvidenza, ha sopraffatto le nostre piccole volontà. Ci siamo sposati grazie ad uno scherzo. Lavoravamo insieme, lei mi piaceva ed ho scoperto dopo che io piacevo a lei, ma io ero molto compassato nel mio ruolo di capo e lei non voleva apparire come quella che ci provava con il capo. Una sera ad una cena tra colleghi, uno di loro, ci fece uno scherzo. Alla fine della cena si alzò e disse “E ora facciamo un bel brindisi per Roberto e Anselma che presto si sposano”. Grande imbarazzo e risate generali. Ma usciti dal ristorante l’avvicinai e le dissi “Ma che razza di scherzo… però... però io mi ci vedrei bene dentro questo scherzo. E tu?” Dopo tre mesi eravamo sposati».

«Allo stesso modo non si può raccontare Chiara, e anche il mio ruolo di padre, prescindendo dalla figura di sua sorella, di Elisa. Il rapporto tra le due sorelle era osmotico, pur nello specifico delle rispettive individualità le univa una relazione di confidenza complicità e unione spirituale, completamente libera da gelosie e concorrenze, come è abbastanza raro trovare. L’ultima notte di Chiara rimasero loro due insieme, da sole. Un dialogo, per Elisa, che non si è interrotto quella notte».

«Tu capisci dunque che con queste figlie — e questa mamma — alla fine non è stato difficile essere padre»

«Io penso che il compito principale di un padre sia quello di suscitare nei figli una forte curiosità intellettuale. Non imporre risposte ma proporre domande sulla vita, e sul mondo. Io le ho spinte a viaggiare e conoscere fin da piccole. Poi il resto viene da solo: nel senso di “poche parole ma un buon esempio”. I figli prestano più attenzione a quello che fai piuttosto che a quello che dici».

«Fintanto Chiara è stata al nostro fianco non abbiamo avuto percezione della straordinarietà della storia che ci stava donando. Credo di averlo capito solo il giorno del funerale quando, in una chiesa piena all’inverosimile, sentii per la prima volta la parola “santità” pronunciata dal cardinale Vallini. Mi riesce ancora oggi difficile pensare a questo termine. Per me Chiara è sempre e innanzitutto mia figlia. Forse dico una sciocchezza, ma mi risulta difficile immaginare che cosa sia essere “padre” nella comunione dei santi».

La chiacchierata con Roberto, condita di pause e silenzi che pure parlano, continua camminando lungo il fiume oltre ponte Sant’Angelo. La direzione da traguardare è la scuola di Francesco, il frutto più bello di Chiara. «Anche in pensione continuo a coltivare molti interessi, specie nel campo del bene sociale. Ma è inutile che ti dica che l’essere nonno è ciò che riempie la mia vita. Non solo di Francesco. Elisa mi ha regalato tre splendidi nipoti, che però non vedo spesso come vorrei, perché vivono a Milano».

Francesco esce dal portone della scuola e corre ad abbracciare il nonno. Mi corre un brivido a vederlo: è la copia identica della mamma. «Anche nel carattere è molto simile a Chiara. Anche lui ama l’arte e la musica».

«Prima di lasciarti vorrei dirti un’ultima cosa, che non ho mai raccontato. Avevo sempre pensato che non ci fosse dubbio nel caso di una futura mamma ammalata, se anteporre il suo bene a quello del bimbo in grembo. La storia di Chiara mi ha fatto capire che se lei avesse anteposto la sua persona a quella di Francesco, che i medici definivano semplicemente “il feto”, non sarebbe stato certo che lei si sarebbe salvata ma avrebbe potuto compromettere anche gravemente la salute di Francesco che invece è qui con tutti noi sano e bello ed è stato fondamentale per affrontare la vita senza Chiara. Oggi Chiara vive in Francesco.

«Ed è la mia consolazione. Sbagliavo. È stato l’ultimo insegnamento, l’ultimo dono nella Fede che mia figlia ha voluto fare al padre».

di Roberto Cetera