· Città del Vaticano ·

Tradizioni medievali in tempo di Quaresima

Quella rosa d’oro

La Rosa d’Oro (Museo diocesano di Benevento)
15 marzo 2021

Tra le immagini e i simboli del papato medievale di cui s’è ormai quasi persa memoria collettiva v’è indubbiamente la rosa d’oro che nella iv domenica di Quaresima — detta domenica Laetare, dall’antifona d’ingresso che in quell’occasione inizia appunto con le parole Laetare Jerusalem — il Pontefice romano donava originariamente al prefetto dell’Urbe, e poi, con il passare del tempo, a sovrani e personaggi d’alto rango, ma anche a cattedrali e santuari insigni, a repubbliche e città illustri: si possono, in proposito, leggere le brevi, ma dense pagine che vi dedica Agostino Paravicini Bagliani nel suo libro Le Chiavi e la Tiara, mentre per l’epoca moderna può trarsi ancora profitto dalle pagine del Dizionario di erudizione ecclesiastica del Moroni (vol. lix , pagine 111 -149).

Come attesta Innocenzo iii (1198-1216) in due diversi discorsi per la iii domenica di Avvento, insieme alla iv di Quaresima, quella domenica — detta Gaudete — era la sola nella quale, in Avvento come in Quaresima, il Papa facesse uso della mitra con fregi aurei (Sermo vi ); inoltre, Innocenzo iii chiariva che in entrambe le circostanze la Sede Apostolica era altresì solita mostrare segni di gioia non solo nell’ufficio, ma anche negli ornamenti (non solum in officio verum etiam in ornatu): infatti, nella iv domenica di Quaresima «il Pontefice Romano porta un fiore d’oro simile a una rosa, mentre ora [ iii domenica di Avvento] porta l’infula e la casula ornata d’oro e di gemme» (Sermo vii ).

Nella domenica Laetare «sive de rosa» — detta cioè anche «della rosa» — il Papa si recava a celebrare nella chiesa di Santa Croce di Gerusalemme portando in mano la rosa d’oro, che poi in quella basilica mostrava ai fedeli. Anche per quella domenica si sono conservati due discorsi del Pontefice: nel primo Innocenzo iii spiegava il significato dei due miracoli della moltiplicazione dei pani (Sermo xvii ), invece nel secondo si concentrava sul significato della rosa aurea (Sermo xviii ). In quella domenica — esordiva il Papa — l’intero ufficio era tutto pieno di letizia, di esultanza, di gioia; quel giorno rappresentava infatti «la carità dopo l’odio, la gioia dopo la tristezza, la sazietà dopo la fame». Carità, gioia, sazietà che venivano simboleggiate «nelle tre proprietà di questo fiore che presentiamo al vostro sguardo: la carità nel colore, la gioia nel profumo, la sazietà nel sapore».

La rosa aveva pure un chiaro riferimento cristico, poiché alludeva a Colui che dice di se stesso, nel Cantico dei cantici, «io sono un fiore del campo, un giglio delle valli» (2, 1); «fiduciario di questo fiore — continuava Innocenzo iii — è il vicario del Salvatore, cioè il Romano Pontefice, successore di Pietro e vicario di Gesù Cristo», poiché solo Pietro, fra tutte le altre membra del corpo ecclesiale, «fu assunto nella pienezza del potere». «Il Romano Pontefice non mostra questo fiore in ogni tempo, ma soltanto in questa domenica, che è la settima da quella detta di Settuagesima, poiché Cristo non in qualsiasi ora, ma solo nella settima età sarà visto da quelli che sono consolati nel riposo beato». Per questo motivo la rosa d’oro si mostrava nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, poiché tale basilica costituiva l’immagine e il modello della Gerusalemme celeste.

Benché le prime notizie sulla rosa d’oro papale risalgono al 1049, la sua origine è senz’altro più antica: in quell’anno, infatti, nell’esentare dalla giurisdizione del vescovo del luogo il monastero di Heiligenkreuz (Santa Croce) presso Woffenheim, in Alsazia, per porlo sotto la protezione speciale di San Pietro, Leone ix (1049-1054) chiedeva che la badessa dello stesso inviasse ogni anno, a lui e ai suoi successori, una rosa d’oro «fabbricata come è solito farsi» (sicut fieri solet); il fiore aureo doveva giungere a Roma otto giorni prima della iv domenica di Quaresima, poiché in quel giorno il Papa aveva l’abitudine di portare la rosa (consuete portari in iv Dominica). Difficile dire quando sia stato introdotto l’uso di donare il prezioso gioiello: certo è che nel 1097 Urbano ii offrì in dono la rosa d’oro al conte Folco d’Angiò.

Eugenio iii (1145-1153) e, dopo di lui, Alessandro iii (1159-1181) accentuarono il simbolismo cristico della rosa, cogliendovi un chiaro riferimento alla Passione e Risurrezione del Signore. La Passione, secondo Papa Bandinelli, era simboleggiata dal colore rubeo che tingeva il metallo aureo, mentre la Risurrezione dal profumo emanato dal fiore, capace di disperdere ogni fetore così come la fragranza della Risurrezione del Signore disperde il fetore di ogni peccato.

Nel riprendere i temi esposti dal suo predecessore, Onorio iii (1216-1227) insistette sulla persona del Papa; nel suo atto di portare in quel giorno la rosa d’oro, bisognava infatti considerare il tempo, il luogo e la persona: il tempo, vale a dire a metà della Quaresima; il luogo, cioè la basilica di Santa Croce, con ciò che essa stava appunto a significare; la persona, poiché a portare la rosa era «il Sommo Pontefice, successore di Pietro e vicario di Gesù Cristo, che è il Re dei re e il Signore dei signori e viene significato dalla rosa».

L’uso, da parte dei Papi, di concedere in dono la rosa d’oro s’è perpetuato fino all’epoca moderna, anche se quasi tutti gli antichi esemplari sono andati perduti: si conosce la forma di quella che Innocenzo iv donò ai canonici di San Giusto di Lione grazie a un disegno settecentesco, mentre la più antica tra quelle superstiti — un tempo della cattedrale di Basilea e oggi a Parigi, al Musée de Cluny – è trecentesca. Il cardinale domenicano Vincenzo Maria Orsini, il quale fu per trentott’anni arcivescovo di Benevento e che anche dopo essere assurto al trono di Pietro con il nome di Benedetto xiii (1724-1730) mantenne il titolo di arcivescovo del capoluogo sannita, nell’anno santo del 1725 donò la rosa d’oro a quella chiesa cattedrale: «Aggiungerò — scriveva Moroni nel suo Dizionario — che tuttora si conserva nel suo tesoro, visitato da Pio ix nel 1849». Ebbene, la bella notizia è che nonostante lo scempio perpetrato nell’ultimo conflitto mondiale, quando i bombardieri statunitensi — i quali fecero in città tremila vittime — rasero al suolo l’antica basilica, il gioiello è sopravvissuto, con qualche danno, fino ai nostri giorni e tuttora è visibile al pubblico nel locale Museo diocesano.

Come quella trecentesca conservata a Parigi, la sua forma è costituita da un fascio di rose: in origine erano sedici, alcune con gemme incastonate, sormontate – così attesta un inventario del 1726 – da una croce di cristallo di rocca «con finimento di filograno di argento indorato attorno, dentro della quale vi è collocato un gran pezzo del legno della Santa Croce». Al di là del suo pregio artistico quale esempio d’alta oreficeria, il gioiello ha un indubbio valore storico, capace di riportare alla memoria un uso da tempo cessato e comunque in grado di rivelare ancora la forza che immagini e simboli della Chiesa medievale hanno esercitato nel corso dei secoli.

di Felice Accrocca