· Città del Vaticano ·

Walter Kasper e l’incontro con Papa Francesco

Nel segno della misericordia

 Nel segno  della misericordia  QUO-053
05 marzo 2021

Il cardinale Walter Kasper, presidente emerito del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, è un teologo che, con la sua persona e la sua testimonianza, rappresenta una Chiesa che, sulla scia del concilio Vaticano ii , vuole essere solidale con «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi» (Gaudium et spes, 1), nella direzione e intenzione del comando evangelico di Matteo 28, 19 sg. a cui è da attribuire la più alta priorità pastorale.

È nato il 5 marzo 1933 a Heidenheim. Nel 1964 ha conseguito a Tubinga la libera docenza. Nello stesso anno è stato chiamato, su invito di Joseph Ratzinger, a Münster ed è diventato così il più giovane professore ordinario tedesco. Nel 1970 si è trasferito a Tubinga. Quattro anni dopo ha dato alle stampe Gesù il Cristo, il suo libro più apprezzato anche da Benedetto xvi , che, in occasione dei 75 anni di Kasper, scriverà: «La tua cristologia, appena apparsa in una nuova edizione, è diventata un orientamento per molte persone [...] tu ci hai richiamato il vero centro della teologia, che è per sua natura discorso di Dio». Nel 2001 è stato elevato alla porpora ed è stato nominato presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Nel 2011, per raggiunti limiti di età, ha rassegnato le dimissioni e tre anni dopo ha tenuto la relazione Il Vangelo della famiglia davanti al Concistoro dei cardinali, pubblicata in un volume definito da Papa Francesco un libro in cui «ho trovato una teologia profonda».

L’impronta dominante del cammino di Kasper è stata tracciata dalla sua formazione a Tubinga e in particolare dal suo docente Geiselmann, che gli ha fatto conoscere l’opera di Möhler. A questo insegnamento Kasper è sempre rimasto fedele. Il tratto caratteristico della scuola cattolica di Tubinga, di cui Möhler è l’esponente che risalta in primo piano, è connotato dal legame che intercorre tra una rigorosa scientificità e il riferimento costante all’ecclesialità e alla prassi. Su questo sfondo, per Kasper, il tema centrale, che risale ai testi scritturistici e trova in essi il suo fondamento ultimo, è quello della misericordia. Anzi, se si volesse, si potrebbe addirittura «riassumere tutto il Vangelo sotto il titolo della misericordia», nonostante che nei manuali di teologia essa venga quasi del tutto trascurata. Questa sua connotazione è stata messa in evidenza da Giovanni Paolo ii , con l’enciclica Dives in misericordia (1980), ma anche da Benedetto xvi con la Deus caritas est (2005) e poi da Papa Francesco che ne ha fatto il centro di gravità del suo pontificato.

Secondo Kasper, con la misericordia ci troviamo di fronte alla vera identità del cristianesimo. Nell’Antico Testamento essa distingue Dio dagli uomini. Il profeta Michea fissa nel tempo questo punto di vista, scrivendo che «Egli si compiace di manifestare il suo amore» (Mi 7, 18). Nel Nuovo Testamento viene assicurata la continuità dello stesso messaggio, al punto che esso diventa il centro della teologia e della soteriologia e la Lettera agli Efesini riassume tutto ciò con le parole: «Dio è pieno di misericordia (Ef 2, 4)».

Questo discorso pone le basi etiche per le affermazioni principali in cui si articola l’intero annuncio biblico, in cui si afferma che «Dio è amore» (1 Gv 4, 8). Su questa linfa, infatti, si innesta il principio della solidarietà che lega tutti i membri della società intesa come comunità, perché «l’amore con Dio e l’amore con il nostro prossimo sono inscindibilmente connessi (cfr. Mt 22, 34-40). Nessuno può amare Dio senza amare anche il suo prossimo (cfr. 1 Gv 4, 20; 3, 10-18). Ecco la centralità del discorso della montagna: «Beati i misericordiosi» (Mt 5, 7). Nel suo discorso sull’ultimo giudizio, Gesù conosce solo un criterio: il nostro comportamento con gli affamati, gli assetati, gli ignudi, gli ammalati, i prigionieri.

Questo carattere del messaggio biblico è stato ripreso dal concilio Vaticano ii che ha parlato della Chiesa «quasi come un sacramento di Cristo, cioè segno e strumento di Cristo. Così la Chiesa è anche sacramento, ossia segno e strumento della misericordia di Cristo. Essa nella sua dimensione visibile, sociale e istituzionale deve rappresentare e rendere visibile il Cristo misericordioso».

Su questo grande alveo si inserisce l’incontro di Kasper con Papa Francesco. Kasper, infatti, è convinto che la Chiesa abbia trovato in Papa Francesco un centro di propulsione efficace e di una vigoria inaspettata, che con saldezza di propositi «vuole rimuovere quel tanto di cenere accumulata per far di nuovo brillare il nucleo di brace del vangelo». Egli, infatti, «parte radicalmente, vale a dire comincia dalla radice (radix), dal vangelo. La lettura spirituale e lo studio della Sacra Scrittura (Dei Verbum, 21-26), raccomandati dal concilio Vaticano ii , sono per lui di fondamentale importanza, come mostrano le sue omelie e i suoi discorsi (Evangelii gaudium 174 s.). Per Vangelo, però, Francesco non intende un libro o i quattro libri che noi indichiamo come i quattro vangeli. Con “vangelo”, infatti, non si intende originariamente uno scritto o un libro, ma un messaggio, più precisamente la consegna di un messaggio buono e liberante, che cambia la situazione radicalmente, mette l’uditore a confronto con una situazione nuova e lo chiama alla decisione».

Il magistero di Papa Francesco, pur se in apparenza viene a prendere un carattere decisamente nuovo, si colloca in piena continuità con questa grande tradizione conciliare, biblica, ma anche con miriadi di santi, di teologi, e questo lo rende esemplare e lo immette nello sfondo dei più grandi movimenti di riforma della Chiesa, fra i quali spicca soprattutto il «movimento evangelico di san Francesco d’Assisi e di san Domenico [...]. Da questo movimento evangelico di allora provengono i due più importanti teologi del medioevo, Tommaso d’Aquino (1225-1274) e Bonaventura (1221-1274)». Questa prospettiva, tesa a ridare prevalenza radicale allo spirito dell’Evangelo, dopo il concilio Vaticano ii , e poi con i più recenti documenti del magistero, come la Evangelii nuntiandi (1975), la Redemptoris missio (1990), l’enciclica Deus caritas est (2005), ai nostri giorni non solo è stata continuamente ribadita, ma con Papa Francesco è diventata un contributo organico e unitario, il programma pastorale della Chiesa, tanto che il termine misericordia è assurta a parola chiave del suo pontificato.

Tuttavia, nonostante con essa Papa Francesco rinvii esplicitamente al messaggio centrale del cristianesimo, che ha il suo fondamento nella Bibbia e nella Tradizione, parlare di misericordia suona ad alcuni sospetto e superficiale. Secondo Kasper essi «subodorano il pericolo che in tal modo si favorisca un’arrendevolezza pastorale deboluccia e un cristianesimo light, un essere cristiani a prezzo scontato. Così essi vedono nella misericordia una specie di ammorbidimento che erode i dogmi e i comandamenti e svaluta il significato centrale e fondamentale della verità. Questo è un rimprovero che, nel Nuovo testamento, i farisei fecero anche a Gesù. La misericordia di Gesù li portò ad una tale incandescenza che decisero di farlo morire (Mt 12, 1-8.9-14). Questo, inoltre, è anche un grossolano fraintendimento del senso biblico profondo della misericordia. Infatti, la misericordia è allo stesso tempo una fondamentale verità rivelata e un comandamento di Gesù esigente e provocante. Essa è in intimo rapporto con tutte le altre verità rivelate e i comandamenti. Come può, perciò, se rettamente compresa, mettere in discussione la verità e i comandamenti? Essa non elimina neppure la giustizia, ma la supera. È la giustizia più grande, senza la quale nessuno può entrare nel regno dei cieli».

Tra l’altro, nella grande tradizione cristiana, la giustizia, in quanto virtù, si riconduce alla carità, che perciò appare superiore alla giustizia o come una sua sublimazione, perché la giustizia «lascia adito di necessità ad altri criteri etici (subiettivi), come quelli dell’amore e della saggezza: i quali valgono così realmente a integrarla [...] La carità indica, in somma, il modo migliore e più alto di valersi del proprio diritto». A maggior ragione, quindi, si può dire secondo Kasper, che il «discorso della misericordia riguarda in primo luogo la comprensione e la prassi della Chiesa. Infatti, se noi dobbiamo essere misericordiosi come è misericordioso il Padre nostro celeste, allora ciò vale non solo per il singolo credente, ma anche per la Chiesa. Essa è e deve essere il sacramento, ossia il segno e lo strumento della misericordia di Dio». In linea con questa impostazione e nella piena continuità della grande tradizione cristiana, Papa Francesco, secondo Kasper, può ben a ragione rivendicare il merito di aver posto al centro della sua predicazione e del suo magistero l’immagine della Chiesa come popolo di Dio, che «è fermamente radicata nella tradizione biblica, patristica e liturgica». Sulla base di questo sfondo, alimentato dalla teologia della misericordia, è da comprendere lo stile di Papa Francesco, che è uno stile di vicinanza al popolo e di avversione a qualsiasi forma di clericalismo, mosso dalla convinzione che «la Chiesa è una madre misericordiosa, con cuore aperto a tutti [...] una casa aperta, con le porte aperte (Eg 46-49) [...] una Chiesa accidentata, ferita e sporca, per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa chiusa su se stessa, che si rinchiude nelle sue strutture, mentre fuori attende una massa di gente affamata (Eg 49)». Perciò, «la Chiesa non può essere autoreferenziale, non può essere una Chiesa narcisisticamente innamorata di se stessa, che ruota attorno a se stessa. Una persona egocentrica è una persona malata, una Chiesa autoreferenziale è una Chiesa malata (Eg 43)». In questo suo impegno incessante, Papa Francesco, spesso e volentieri, ha parlato di mondanità spirituale e, sulla scia del teologo e cardinale francese Henri de Lubac, ne definisce i tratti come quelli di una «lebbra infamante», uno «scandalo», «il più grande pericolo per la Chiesa», una «attitudine radicalmente antropocentrica» che significa «mettere al centro se stessi». Questa prospettiva implica necessariamente il fatto che «nella carità e nello scambio anche di beni materiali indispensabili alla vita, si forma continuamente la “comunità”, la quale è dunque comunione e comunanza di vita e di beni spirituali e materiali. I sazi, in una parola, non potranno prendere parte alla Liturgia della Comunità accanto a fratelli affamati, se non abbiano prima provveduto a sfamarli (meglio: metterli in grado, oggi, di sfamarsi da sé, col proprio lavoro), altrimenti si avrebbe una tragica farsa» (Tommaso Federici, Letture bibliche sulla carità, Roma, 1970).

di Antonio Russo