· Città del Vaticano ·

Dal 2000 la presenza dei cristiani nel Paese si è ridotta di centinaia di migliaia di fedeli

Exodus

Iraqi Christian walk near a church in Qaraqosh, Iraq February 16, 2021. Picture taken February 16, ...
04 marzo 2021

L’emigrazione dei cristiani iracheni registrata negli ultimi anni è un fatto innegabile. I dati di solito forniti per documentarne le dimensioni sono difficilmente verificabili. Ma è certo che dall’inizio del terzo millennio la presenza cristiana in quel Paese si è assottigliata di diverse centinaia di migliaia di battezzati. Anche il Patriarca caldeo Louis Raphaël Sako, solitamente poco propenso agli allarmismi, ha citato nel gennaio 2019 ricerche sui flussi migratori della popolazione irachena secondo cui negli ultimi anni circa un milione di cristiani autoctoni hanno lasciato l’Iraq per stabilirsi in altri Paesi. Adesso, secondo fonti convergenti, i cristiani che vivono in territorio iracheno non supererebbero i 300 mila. 

La partenza di tanti cristiani dall’Iraq rivela difficoltà storiche e nuove fragilità che condizionano il vissuto di quelle comunità ecclesiali. Diversi fattori congiunturali concorrono ad alimentare il fenomeno, diventato anche strumento di interessi materiali e terreno di operazioni geopolitiche giocate a livello regionale e globale.

La vulgata mediatica prevalente presenta l’esodo dei cristiani dai territori iracheni come un effetto diretto di traumi subiti da parte dei jihadisti del sedicente Stato islamico (Daesh), negli anni (2014-2017) in cui le milizie del Califfato hanno posto la loro capitale a Mosul, spargendo delirio e terrore nella Piana di Ninive e in tutto il Paese. Invece, l’ultima impennata di fughe di cristiani dall’Iraq inizia da molto prima, e trova le sue ragioni nel caos violento che ha spazzato come un vortice il Paese dopo le operazioni militari a guida Usa — Desert Storm (1990-91) e soprattutto Iraqi Freedom (2003) —  che portarono alla fine del regime di Saddam Hussein. Nel nuovo Iraq “democratico” uscito dalle “guerre dei volenterosi” avanza un mondo impazzito fatto di squadre della morte, rapimenti, sevizie. Una violenza nutrita di rancori politici, sete di vendetta e odi settari, che travolge tutti, ma che i cristiani sentono di pagare con moneta particolare. Loro sentono di essere i bersagli più inermi, con le case, cose e persone alla mercé dei violenti. Senza quartieri-roccaforte per resistere, senza milizie e clan tribali potenti a cui chiedere protezione. Fuggono dove possono. Almeno 50 mila trovano rifugio nella Siria di Bashar al Assad, che in quegli anni accoglie più di un milione di rifugiati iracheni. Intanto, nello stravolto scenario iracheno, si infiltra a poco a poco anche il veleno jihadista. Le reti che fanno capo ad Al Qaeda e a altri gruppi di terrore accendono con soldi e ordini arrivati da fuori i settarismi, i risentimenti e le seti di vendetta che dilagano tra gli iracheni. In quegli anni i terroristi fanno strage di cristiani a Bagh-dad, ammazzano preti e un vescovo a Mosul. Nello stesso tempo infame, attentati mirati colpiscono moschee sciite e sunnite. Il “caos creativo” punta anche sul jihadismo per innescare rese dei conti e strategie di “regime change” in Medio Oriente. Un’epoca di instabilità che fa da incubatrice anche ai deliri che qualche anno dopo prenderanno corpo nel Califfato nero di Mosul. «In tutta sincerità — ha riconosciuto il Patriarca Sako nel discorso pronunciato il 27 marzo 2015 presso il Consiglio di sicurezza dell’Onu — la cosiddetta Primavera araba ha avuto un effetto negativo per noi. Se solo avessimo potuto lavorare in armonia con il mosaico di religioni e gruppi etnici che compongono la nostra regione, avremmo visto svilupparsi una forza in grado di guidare la regione verso la pace».

Nel giugno 2014, quando i miliziani di Daesh conquistano Mosul senza trovare resistenze, i cristiani scappano o vengono espulsi a forza dalle loro case, mentre i notabili sunniti che non si allineano subito alle squadre del nuovo potere vengono subito ammazzati. Negli anni di Daesh, il trauma che più segna la memoria condivisa dei battezzati iracheni è la fuga di massa a cui la notte tra 6 e 7 agosto 2014 furono costretti i cristiani di città e villaggi sparsi nella Piana di Ninive, area di insediamento storico delle comunità cristiane in Mesopotamia. Decine di migliaia di persone scapparono senza poter portare  via niente verso Erbil e altre città del Kurdistan iracheno, lasciando alla mercé dei jihadisti le loro case, le chiese e i monasteri. Il numero di vittime fu limitato, anche a motivo della fuga di massa. Eppure, per indicare il trattamento violento e aggressivo riservato dai jihadisti ai cristiani iracheni e anche ai loro luoghi sacri, alle croci e alle statue dei santi, si comincia a utilizzare con insistenza l’espressione “Genocidio”. Una opzione carica di risvolti concreti e operativi: nell’ordinamento statunitense, quando i crimini sofferti da una comunità di persone in qualsiasi parte del mondo sono riconosciuti come genocidio, il Presidente Usa è tenuto a porre in atto tutte le opzioni politiche, economiche e militari utili a sostenere le vittime e portare a giudizio i colpevoli. Negli anni della espansione jihadista sui territori iracheni, negli Usa un cartello di 118 sigle e rappresentanti di istituzioni e gruppi civili e religiosi fa lobby per spingere le istituzioni statunitensi a riconoscere come genocidio le azioni compiute dai jihadisti del Daesh contro tutte le comunità religiose minoritarie, a partire da cristiani e yazidi. Il risultato più rilevante della campagna è l’«Iraq and Syria Genocide Relief and Accountability Act», la legge firmata dal Presidente Donald Trump che nel dicembre 2018 definisce come “Genocidio” la serie di crimini perpetrati negli ultimi anni da gruppi jihadisti su cristiani e yazidi in Iraq e Siria, e impegna il governo degli Stati Uniti a fornire assistenza umanitaria ai gruppi vittime delle violenze e a perseguire i responsabili e gli esecutori delle efferatezze. La legge viene definita da alcuni invitati alla cerimonia della firma come uno strumento «vitale» per garantire la sopravvivenza dei cristiani in Iraq e salvare le loro comunità dall’estinzione. Nondimeno, il Patriarca Sako anche nell’intervista rilasciata ieri all’Agenzia Fides ha ripetuto che «Se c’è stato un genocidio, esso ha colpito tutti: i cristiani e ancora di più gli yazidi, ma anche sciiti e sunniti, in numero più alto. Non bisogna separare i cristiani dagli altri, le sofferenze dei cristiani da quelle degli altri, perché in quel modo si alimenta la mentalità settaria». E anche Papa Francesco, già il 18 giugno 2016, aveva detto chiaramente che a lui «non piace, e voglio dirlo chiaramente, quando si parla di un genocidio dei cristiani in Medio Oriente», e aveva invitato a non fare «riduzionismo sociologico di quello che è un mistero della fede, un martirio», ricordando anche quella volta «quei cristiani copti, sgozzati sulle spiagge della Libia. Tutti sono morti dicendo “Gesù, aiutami”».

Dopo che Mosul e la Piana di Ninive sono stati tolti alle milizie jihadiste, migliaia di famiglie di sfollati cristiani hanno fatto ritorno alle proprie città e ai propri villaggi. Altre migliaia di nuclei familiari sono rimasti nel Kurdistan, e innumerevoli sono anche quelli emigrati all’estero, attratti dalla calamita sociale della diaspora irachena nei Paesi occidentali. In passato, i vescovi iracheni hanno espresso preoccupazione per la prassi adottata da diverse ambasciate e consolati stranieri che favoriscono la concessione di visti di asilo agli iracheni cristiani, rispetto agli iracheni di altre fedi. E negli ultimi anni, il ritorno degli sfollati cristiani a Mosul e nella Piana di Ninive è stato sempre indicato come una priorità dalle autorità irachene, sia a livello nazionale che a livello locale. Non di meno, già prima dell’esplosione dell’emergenza sanitaria legata alla pandemia da covid-19, diverse ricerche e indagini sui processi di contro-esodo hanno documentato in maniera unanime che i rifugiati cristiani ritornati sono meno della metà di quelli che erano fuggiti davanti ai miliziani di Daesh. Davanti a questo scenario, si mobilitano con generosità risorse economiche, volte a favorire il “ritorno” e la permanenza dei cristiani in Iraq, tanto necessarie ma col rischio di accreditare o accentuare la falsa impressione che gli aiuti esterni siano determinanti per far rimanere cristiani in quelle terre. 

Intanto, i pastori più avveduti delle Chiese autoctone radicate in quelle terre ripetono che non serve e non conviene immaginare «aree protette» per i cristiani, o contare sul «bullismo» (Patriarca Sako) di qualche corpo d’armata straniero. Ritengono ancor più assurdo pensare di mettere in piedi “milizie d’autodifesa cristiane” a imitazione di altri gruppi paramilitari confessionali. Sanno che non esistono ricette magiche, sistemi di protezione economica o geo-politica da imporre dall’esterno. E che tutto riposa sulla preghiera che i cristiani anche in Iraq possano cogliere e seguire il filo d’oro che già attraversa il mistero delle loro vicende così dolenti, così vitali. Il mistero di predilezione suggerito da Nathanael Nizar Semaan, oggi arcivescovo siro-cattolico di Adiabene (Hadiab), che nel 2015 raccontava con commozione degli abitanti di Alqosh, che celebravano in processione la festa della Santa Croce, mentre su Mosul, a meno di 50 chilometri, svettavano ancora le bandiere nere del Califfato: «I cristiani di Alqosh mandano un segnale che ci interpella tutti. Hanno voluto dire: siamo ancora qui, anche se nessuno ci protegge, perché abbiamo fiducia che a proteggerci ci pensa il Signore Gesù, con Maria sua Madre».

di Gianni Valente