· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

Sguardi diversi

Dalla voce di Eva

Domenichino «Rimprovero di Adamo ed Eva», 1633 Museo di Grenoble (Wikimedia Commons)
06 marzo 2021

Genesi, i capitoli 2 e 3 raccontati da una scrittrice


Il racconto delle origini ha la ricchezza di occasioni, per la riflessione e l'immaginazione, che hanno i miti. In questi anni sempre più di frequente teologhe e bibliste vanno alla fonte, per vedere cosa il racconto non ha mai smesso di dirci al di sotto delle stratificazioni e delle incrostazioni. Su questa scia, con i mezzi propri della letteratura, ho provato a raccontare i capitoli 2 e 3 della Genesi dando la parola a Eva.

Ero talmente nuova. E anche lui era nuovo quanto me o almeno così si sentiva: non è che mi abbia fatto gli onori di casa, laggiù nel giardino nell'Eden. Eravamo fatti di terra impastata di fiato, venivamo di là come neonati, eravamo creature. Già tutto era vita, quattro fiumi circondavano e irrigavano l'Eden, c'era Pison che scorreva attorno alla regione di Avila, dove si trova l'oro, e la resina profumata e la pietra d'onice. C'era Ghicon che scorre attorno all'Etiopia, c'erano il Tigri e l'Eufrate. Li sapevo quei nomi o li ho saputi dopo? Non mi ricordo che lui mi abbia detto: benvenuta, sei nata da me nel sonno, come da una madre addormentata per il cesareo. Niente sapevamo di madre, di padre, di figlio, di figlia. Benvenuta, ti mostro l'acqua che rende umida la terra, il giardino: quelli, uccelli del cielo, quelli, animali della terra, e i pesci che nuotano dalle scaglie lucenti; non mi ricordo me li abbia enumerati a uno a uno nominandoli, non ha detto lepre, o leone, non ha detto lupo o serpente.

Quando mi sono trovata così nuova davanti a lui, il mio compagno ha cantato, non cantava a me, cantava esaltato di me, cantava perché c'ero. Cantava che ero stata tratta da lui, e sì, ha detto un nome, un nome che ci univa. Ma non eravamo uniti, c'era spazio fra noi. Lo spazio fra noi, lui non l'ha nominato. Ma lo spazio c'era. Quello spazio era una festa, era il luogo in cui giocavamo, ci lanciavamo sassi che disegnavano parabole e finivano nella mia, nella sua mano, le mani si stringevano e si lasciavano, lo spazio era bellissimo, ma era anche una fitta, una domanda. E lui come me l'avvertiva.

Intanto la vita mi trascinava, guardavo, toccavo gli alberi e i frutti, accarezzavo il pelo delle bestie, bevevo l'acqua dalla conca delle mani, ne sentivo il fresco sulle palme dei piedi. Mi piaceva correre, saltare, sentire che cresceva il calore nel corpo dopo lo sforzo, anche il fresco gradivo, la brezza che mi colpiva asciugando il sudore. A volte scoprivo il mio compagno che mi guardava, ma non sempre davo peso al suo sguardo. Lo salutavo, gli sorridevo. Il mio corpo e il giardino mi sembravano un incontro perfetto, di gioia: con che gusto l'ho pronunciata quella parola, gioia, oh se mi piacevano i nomi. Forse quei nomi già li sapevo, mi balzavano allegri alla mente non appena ne avevo bisogno perché li avevo inventati, li avevamo gridati quando io-lui eravamo tutt'uno, quando ancora non ero stata formata dal fianco, dalla parte del tutto terrestre. Così sapevo come chiamare il fringuello, il lupo, la tortora, il bruco, ma anche l'arbusto, e anche l'erba. A volte mi baloccavo con loro, inventavo aggettivi, lallazioni gradite — mi sembrava — al giardino neonato. Poi sì, a volte stavamo insieme, io e lui, e l'aiutavo. Se una pianta di malva era così lontana dal fiume da stentare per mancanza dell'acqua, ci indicavamo l'un l'altra dei modi per scavare un solco, un fiume piccolo e sottile che portasse laggiù il ristoro. Lavorare era gioia e scoperta, senza peso.

Solo a volte, quando scendeva l'ombra, gli alberi non brillavano più, e cresceva il buio, dapprima dolce e gradito poi più strano, mi capitava di tremare. Ma sempre mi era nella mente e nel cuore il Creatore. Sapevo che non eravamo soli, sapevo che tutta la gioia, la vita, i nostri corpi, tutt'interi noi stessi eravamo un dono di Colui che andava e veniva nel giardino. Ma solo quando scendevano le ombre, sentivo nel cuore crescere la domanda. Quanto spazio c'era fra noi e il Creatore. A volte sembrava uno spazio intollerabile, lontananza. Allora cercavo il mio compagno e insieme gridavamo parole di domanda e d'amore al Creatore, gli chiedevamo di venire con noi nel giardino e lui scendeva. Quella era l'infanzia felice del mondo. Sentivamo lo spazio addensarsi, farsi piccolo fra noi e Lui. Non posso dimenticare lo spazio che si stringeva per via di parole che lanciavamo, per via della Sua prossimità. Allora i nostri occhi erano grati e la piega interrogativa del collo mio e del mio compagno non conteneva ansia, soltanto stupore. E ballavamo l'una di fronte all'altro perché Dio era lì, nel giardino, con gli uccelli notturni, i loro tu-hu, il frinire ossessivo dei grilli, la risacca dell'acqua. Cosa poteva turbarci? Celebravamo allora la separazione che permetteva il canto la danza, lo slancio, la devozione, la presenza, la domanda.

Non è stato di notte che mi ha parlato il serpente. È stato nel pieno del giorno profumato e umido di calore. L'aria sembrava acqua. A quel tempo, qualcosa dicevano tutti loro animali, e noi facilmente li capivamo. Il serpente, nudo e astuto, venne da me. Ma mi sembrava normale, agli abitanti del giardino piacevano le carezze, anche solo la vicinanza con noi. Così pensai che anche lui fosse come gli altri, venisse per quello. Gli appoggiai la mano sul capo, il serpente era freddo, malgrado il calore dell'aria. Allora lui mi disse quella frase: Dio vi ha vietato di mangiare dagli alberi. M'indignai. Certo che potevamo mangiarne, da tutti quegli alberi potevamo mangiare ogni frutto, tutti potevamo mangiarne — tranne uno. Non dovevamo mangiarne e neanche toccarlo, gli dissi, così, credendo di difendere meglio il Creatore che non ne aveva bisogno. Sapevo benissimo da sempre quello che il Creatore ci aveva spiegato. Ora è passato tanto tempo. Il ricordo si appanna. Me l'aveva detto il compagno? O lo sapevo da prima, da quando ero unita a lui in un'altra forma? Intanto però lo sapevo, non come un divieto, o almeno, non lo consideravo un divieto ma un fatto: come se una madre ti dice: non andare nel mare non tocchi, non saltare nel vuoto, non mangiare veleno. Così lo sapevo, che c'era quell'albero al centro del giardino, l'albero della conoscenza del bene e del male che stava accanto all'albero della vita, e che da quell'albero non bisognava mangiare, ma non ci avevo pensato davvero, finché il serpente non mi disse che no, morire non sarei morta, ma avrei avuto la conoscenza di tutto. Sgranai gli occhi, mi si dilatò la pupilla. Quel serpente mi conosceva. Doveva avermi spiato nel giardino, mentre correvo, saltavo, mi arrampicavo, doveva aver colto la piega del collo, l'interrogazione lampante nel dilatarsi degli occhi quando restavo un momento sola, sospesa. Conoscete quei momenti che cambiano il corso di una vita, a cui sempre tornate con sgomento pensando: sarebbe stato così naturale evitarlo, così più naturale. Per me è quello. Ancora oggi ci ritorno, ma non allucino più immaginando di reagire in un modo diverso: il mio corpo scostarsi dal serpente, il mio volto sdegnarlo cambiando il corso di tutto. Oggi vorrei solamente prendere fra le braccia la creatura che ero, stringerla delicatamente: che incanto che ero. Oh, se mi conosceva il serpente. Non mi ha proposto castelli, animali volanti, tappeti, non mi ha proposto il dominio del mondo, non mi ha proposto nemmeno la pace, l'unione, lui lo sapeva che amavo tutto, tutta la vita, tutta la gioia, compreso lo spazio e la fitta della separazione fra noi e il Creatore, compreso il bruciore: avevo già detto sì. Volevo soltanto sapere perché. Avevo soltanto bisogno di sapere, e anche in lui, nel compagno l'avevo vista talvolta quella domanda fra una corsa e l'altra, nell'istante del silenzio o del volo. E ho pensato: è qui, alla distanza di un palmo? Così avevo toccato quel frutto e poi l'avevo spiccato e poi l'avevo mangiato, tenendo nel fondo della coscienza il tradimento della voce di Dio. Buono da mangiare lo era, morire non sono morta. Non subito. L'ho dato al compagno. Ne ha mangiato anche lui (anche lui domandava). E poi è successo quello che sapete, se prima eravamo protetti da qualcosa di dolce, un amnios diradato, l'aria densa del giardino nell'Eden, tutt'a un tratto ci siamo riconosciuti inermi, la separazione compiuta del tutto, e noi così esposti. Il serpente mi aveva ingannato, la domanda restava inevasa, lo spazio, abissale, e in più c'era, nuova, la paura. Ma Dio ci ha cercato e ci ha parlato. E allora il mio compagno ha detto che ero stata io a porgergli il frutto, e io gli ho detto che il serpente mi aveva ingannato e che, è vero, avevo mangiato. Abbiamo conosciuto il dolore, l'accusa, il rancore. Ecco cominciava la storia della nostra fatica. Poi è successo che Lui ci ha vestito, e solo lì ho sentito l'urgenza di piangere, per il conforto nel dolore di sapere che era ancora pronto alla premura, alla cura. Il compagno mi ha chiamato con quel nome che porto ancora, Eva, vostra madre. E siamo andati, e ora c'era il mio bisogno del compagno, com'ero fragile, era un bisogno nuovo, ora volevo almeno sanare la frattura che mi separava dal compagno, la frattura nel creato, e negando lo spazio fra noi piegavo la testa al dominio. La nostra sete di tutto ci spingeva, la fatica e le gravidanze, il dolore, e la bellezza che tuttavia non accennava a finire. Voi che nel tempo mi avete chiamato la porta del male, vorrei per un momento condurvi laggiù nel giardino e mostrarvi la creatura che ero.

di Carola Susani

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Mi sono stati guida alcuni libri, da ultimo il volume collettivo «Non sono la costola di nessuno – letture sul peccato di Eva», a cura di Paola Cavallari (Gabrielli 2020). Devo molto alla conversazione con la biblista Marinella Perroni ( c.s. ).