
Nella piana di Ur, terra di Abramo e della sposa
Quando Abramo partì da Ur per andare verso la terra di Canaan non era solo; accanto a lui c’era una bellissima donna, presa, oltre le consuetudini, all’esterno del clan. Intreccio di silenzi e passioni, attese e frustrazioni, imprese e inganni, dalle pagine bibliche che ce la consegnano, la storia di Sara pare rifrangersi nelle vicende di tante donne di oggi.
Non c’è spazio nel cammino di Sara per la fierezza d’esser stata scelta. Introdotta nella famiglia di Abramo, si trova ben presto invischiata in un sistema di relazioni oppressive, instaurate dal narcisismo del suocero.
Nel nomignolo con cui è chiamata è iscritto il segno di questa situazione: non «Sara», la «principessa», ma «Sarai», dove il finale in «i» indica il possessivo «mio» che, rinchiudendola nell’altrui possesso, le toglie dignità e capacità di reazione. Non è solo lei, in quanto donna, a essere inglobata, lo è anche il marito; mentre questi, però, assorbe la modalità relazionale in cui è immerso fino a renderla propria e replicarla, Sara ne soffre fino a manifestare nel corpo i dolori dell’anima e diventare sterile.
È una tragedia. È la tragedia di tante donne quella di Sara: all’inizio vissuta in sordina, nella speranza che non sia vero, nell’incredulità che sia capitato proprio a lei; nell’illusione, forse, di trovare altrove la propria realizzazione; nell’incomprensione dell’uomo che le cammina accanto e che finisce per trattarla come una sorella. È amata, sì, ma non desiderata. Così Sara, presenza a lungo muta accanto al marito, compie lo stesso suo cammino, accumulando rabbia e frustrazione. Se inizialmente lascia che sia lui a decidere di lei, fino a cederla, in cambio di sicurezza e beni, all’harem del faraone, a un certo punto esplode. La vita presenta il conto di tanti anni di accomodamento: lesa nella sua dignità, usata, non si sente più "donna". Senza figli e senza futuro, da dove potrà ricostruire la sua esistenza? Nella ricerca di un colpevole cui imputare un fallimento troppo pesante da sostenere, Sara accusa Dio.
Non solo: le prova tutte. La mancanza diventa un’ossessione. Con un’intraprendenza che non aveva mai manifestato prima, Sara cerca una soluzione umana al suo malessere e spinge tra le braccia di Abramo una donna egiziana, una sua schiava. Spera in quel modo di procurarsi un figlio, in cui proietta la sua realizzazione come donna. Tentativo disperato che minerà pesantemente l’unità della coppia, la soluzione, culturalmente accettata nella Mesopotamia del
Unica donna biblica di cui si conosca la durata della vita, Sara muore a centoventisette anni, un numero che evoca una pienezza sovrabbondante. La sua è una vita paradossalmente ordinaria nella sua straordinarietà. Tante “Sare” di ogni epoca vivono lunghi anni nel silenzio all’ombra di uno o più uomini; si spengono negli ambienti che soffocano l’individualità e la libera espressione della propria identità; si adeguano e sopportano, fino a raggiungere il limite e portarne i segni nel corpo; sono disposte a tutto, pur di avere un figlio; scoprono in età avanzata potenzialità di vita; vivono, tra fatiche, incoerenze e proteste, la fede come tormentato cammino. A loro Sara offre una speranza: la visita di Dio si realizza come percorso di autenticità e pienezza, che riporta alla propria identità e rende la vita traboccante.
di Laura Invernizzi
Ausiliaria diocesana (Milano), biblista,
docente Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale
e Università Cattolica del Sacro Cuore