· Città del Vaticano ·

Repubblica Democratica del Congo

Una periferia del mondo
dimenticata dai media

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23 febbraio 2021

L’uccisione dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, di Vittorio Iacovacci, il carabiniere della sua scorta, e del loro autista ha suscitato commozione, sgomento e indignazione. Ma ha anche portato alla ribalta la drammatica situazione in cui versa la provincia congolese del Nord Kivu. Uno scenario, quello del settore orientale congolese, segnato da violenze inaudite, quasi mai mediatizzate rispetto alle quali s’impone un sano discernimento da parte del consesso delle nazioni. Stiamo parlando di una periferia del mondo, per usare il linguaggio di Papa Francesco, dove c’è tanta umanità dolente che viene immolata sull’altare dell’egoismo umano. Si stima che da quelle parti siano attive circa 160 formazioni ribelli, con un totale di oltre 20.000 combattenti. Basti pensare che nel solo territorio di Beni, dall’ottobre 2013, sono state massacrate oltre 4.000 persone. È evidente che lo stato di diritto in simili circostanze è una sorta di miraggio che il governo centrale di Kinshasa, almeno per ora, non è in grado di affermare. Ma per comprendere le convulsioni del Nord Kivu, s’impone un’esegesi più estesa sull’intero sistema-paese.

Ai tempi del dittatore Mobutu Sese Seko si chiamava Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo (Rdc). È un vastissimo territorio, autentico crogiuolo di popoli — oltre trecento principali etnie — con straordinarie culture ancestrali, fatto d’immense foreste equatoriali con una vegetazione spontanea che si manifesta nella forma più esuberante e costituisce il più ricco emporio di piante esotiche, tra le quali primeggiano i palmizi e gli alberi dei legni più preziosi, quali l’ebano e il mogano. Per non parlare dei suoi fiumi o degli struggenti tramonti che rendono questo vastissimo territorio un concentrato di bellezze paesaggistiche — come il parco di Virunga nei pressi del quale ieri si è consumato l’efferato crimine — che vanno al di là di ogni fantasia e immaginazione. E cosa dire delle immense ricchezze del sottosuolo che accolgono l’intera gamma dei minerali del nostro pianeta? Tutte le risorse naturali e minerali sono lì concentrate in un’immensa miniera a cielo aperto. Nel Paese si trova di tutto: legname pregiato, rame, cobalto, coltan, diamanti, oro, zinco, uranio, stagno, argento, carbone, manganese, tungsteno, cadmio, cassiterite e petrolio. Materie prime che fanno gola alle grandi potenze industriali.

Anche se le elezioni del 2019, con la vittoria di Félix Tshisekedi, figlio di Ètienne, lo storico oppositore di Mobutu Sese Seko e di Kabila padre, sono riuscite a portare l’ex Zaire verso una relativa stabilità, le contese nell’arena politica non mancano. Emblematico è quanto avvenuto il 5 febbraio scorso con l’uscita di scena del presidente del senato, Alexis Thambwé Mwamba che ha contestato l’illegalità della procedura seguita per destituirlo. Purtroppo le forti divisioni, spesso su base etnica rendono il fenomeno corruttivo estremamente invasivo, col risultato, ad esempio, che le royalty ricavate dalle estrazioni minerarie spesso non vengono reinvestite per sostenere le spese dello Stato centrale.

Con queste premesse il Paese continua a fare parte delle 14 nazioni africane nelle quali la povertà aumenta in maniera continua e la situazione sociale resta molto difficile, in modo particolare nell’ambito specifico della malnutrizione e dell’assistenza sanitaria, particolarmente nel Nord Kivu, nell’Ituri e nei due Kasai, provincie vittime della recrudescenza dell’insicurezza del Paese. L’alta inflazione, le turbolenze politiche e soprattutto il declassamento del mercato operato dalle agenzie di rating peseranno sui livelli d’investimento, i consumi interni e la produzione. Alla fin dei conti, però, per le grandi multinazionali quello che conta davvero è l’enorme ricchezza custodita dal sottosuolo congolese; gli esseri umani contano molto meno. Ecco perché questo gigante africano, con i suoi due milioni e trecentomila chilometri quadrati, rappresenta la metafora per eccellenza delle contraddizioni dell’Africa Sub-sahariana: inferno e paradiso.

Il Pil pro-capite, per inciso, è di circa 450 dollari, uno tra i più bassi al mondo, e l’indice di sviluppo umano è 0,433, che colloca la Rdc al 176° posto nella classifica mondiale. La stragrande maggioranza della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno. Oggi, comunque, il settore orientale dell’ex Zaire, quello dove ha perso la vita l’ambasciatore Attanasio è quello che versa in condizioni peggiori. Qui il riferimento non è solo alla galassia di bande armate, molte delle quali dedite ai saccheggi e ad altre attività eversive come le varie fazioni dei Mayi-Mayi o le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), ma anche alle Forze democratiche alleate - Esercito nazionale per la liberazione dell’Uganda (Adf–Nalu), un gruppo armato filo islamico, di origine ugandese, che fin dalla sua nascita si è opposto al governo del presidente Yoweri Museveni, al potere dal 1986.

Da quelle parti tutta questa riottosità è comunque su commissione: il vero problema dunque è legato alle spregiudicate interferenze straniere di gruppi che fomentano l’anarchia per celare il business illecito delle ricchezze minerarie. Da quando, oltre sessant’anni fa, il Congo ottenne l’indipendenza dal Belgio, queste ricchezze hanno condizionato la storia nazionale. Sì, proprio le stesse risorse che ne fanno «uno scandalo geologico» e che sono state al centro delle guerre che dal 1996 al 2003 hanno insanguinato l’ex Zaire, provocando cinque milioni di morti. E proprio perché ad est, lungo la linea di confine con l’Uganda e il Rwanda, la guerra di fatto non è mai terminata, sarebbe auspicabile un rinnovato impegno da parte della comunità internazionale.

È da rilevare che da diverso tempo la società civile del Nord Kivu ha invocato una partecipazione più attiva del consesso delle nazioni a livello internazionale, peraltro contestando duramente l’operato della forza di peacekeeping delle Nazioni Unite presente nella Rdc (Monusco), definita «inerte» e accusata di non svolgere uno dei suoi compiti principali, quello di proteggere la popolazione civile. Nella città di Beni, ad esempio, vi sono state recentemente proteste contro i caschi blu con blocchi stradali e sit-in dei manifestanti che hanno provocato la dura reazione della polizia con morti e feriti. La Monusco, dal canto suo, si è sempre difesa spiegando di non poter intervenire senza un esplicito invito da parte delle Forze armate della Rdc. Ma a contestare la difesa della Monusco è stata l’Associazione culturale Nande (l’etnia maggioritaria nella città di Beni) che ha inviato una missiva al segretario generale Onu in cui ricorda che, in base alla risoluzione Onu n.2098 del 28 marzo 2013, le forze della Monusco possono intervenire di loro iniziativa quando è minacciata la sicurezza della popolazione civile.

Di fronte a questo scenario di dolore, le autorità governative di Kinshasa, le Nazioni Unite e gli altri partner nazionali e internazionali (inclusa l’Unione europea così preoccupata del tema relativo alla mobilità umana dalla sponda africana) non possono stare alla finestra a guardare. Non solo hanno l’obbligo morale di fornire le risorse necessarie per condurre operazioni finalizzate al ristabilimento dello stato di diritto, ma devono in particolare definire una chiara strategia di protezione della popolazione civile ridotta in condizioni subumane. È l’auspicio della società civile e in particolare della Chiesa cattolica, in tutte le sue componenti, che predica e testimonia il Vangelo della Pace.

di Giulio Albanese