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Tra terra e cielo

Vasilij Perov « Ritratto di Dostoevskij» (1872)
19 febbraio 2021

Ispirandosi al magistero di Gogol, Dostoevskij riconobbe nell’umorismo la via maestra per guadagnare l’eccellenza in letteratura. L’obiettivo, non facile, era di far ridere e, al contempo, di scuotere l’anima del lettore, portandolo a sorridere pur attraverso le lacrime. Viene dunque a configurarsi in filigrana quello stile tragicomico destinato a permeare di sé l’intera produzione narrativa dello scrittore russo. E sull’asse tragicomico si stabilisce una fertile simbiosi tra la dimensione terrena e l’aspirazione divina, anch’essa elemento fondante della concezione dostoevskijana. Come brillantemente rileva Maria Candida Ghidini nel suo Dostoevskij (Salerno Editrice, 2017) lo scrittore, sin dal suo esordio, si presenta come poeta della terra, del suolo, «scavatore di vite sotterranee» con le loro ansie di soffocamento, con le angustie di «chi si va a ficcare nelle strettoie del profondo, di un’intimità nascosta e murata». Lo stesso Michail Bachtin già rilevava che soglie, cortine, finestre e scale segnano «con precisione topografica» i confini raccontati da Dostoevskij. Questi sono i confini dell’interiorità nascosta, non paga della propria introversione ma, tuttavia, consapevole dell’impossibilità di una plausibile via di fuga.

La dimensione terragna che informa via via la galleria di personaggi della narrativa dostoevskijana è ben visibile già nel primo periodo. Basti pensare a Povera gente (1846), il cui protagonista, Makar Devuskin, è un piccolo impiegato di mezza età che si è trasferito in uno squallido «angoletto», dietro a un paravento nella cucina comune di uno stabile per indigenti. Può così risparmiare e mantenere in un vero appartamento un’orfana di diciassette anni. Nella figura di Makar è dato di ravvisare la simbiosi tra terra e cielo. La sua povertà, vissuta con fiera dignità, odora essa stessa di terra, tanto è umile, «bassa», la linea che percorre la quotidianità che egli conduce. Eppure in questo stile di vita così dimesso, così crepuscolare, vibra una fiamma che lingueggia potente, fino a proiettarsi verso la volta celeste. Tale fiamma è alimentata dal nobile proposito dell’eroe (egli stesso si definisce «piccolo uomo») di compiere azione buone e pie. Azioni che, per essere coronate da successo, presuppongono il sacrificio di sé per il bene del prossimo. In questa prospettiva, terra e cielo si confondono in un unico orizzonte. Del resto, quanti squarci di cielo si aprono nel monologo che si sviluppa in Memorie dal sottosuolo (1864)? La contraddizione è solo apparente: più la meditazione, partendo da sottoterra, va in profondità e avanza inesorabile nello scavo, più la mente di chi legge si sente portata ad alzare lo sguardo in alto, appunto verso il cielo, perché la critica del mondo formulata dalla voce narrante non è fine a sé stessa, non si risolve in uno sfogo sterile, in un confuso rimbrotto. In tale critica infatti è contenuto il germe di una volontà di progresso che vorrebbe a tutti i costi spazzare via sovrastrutture e pastoie che tarpano le ali dell’uomo, il cui istinto lo porta a volare — nonostante tutte le sue manchevolezze — verso il cielo e ciò che esso promette.

Sferzando gli ideali ottimistici del positivismo, la voce narrante scaglia gli strali della sua filippica anche contro sé stesso. Si rimprovera anzitutto di non essere riuscito a diventare «nemmeno un insetto». Il suo dramma consiste nell’interiorizzare, in maniera ossessiva, la complessità della realtà. Essendo troppo riflessivo, finisce per approdare all’accidia. Meglio di lui, afferma con sarcasmo, stanno coloro che si pongono in diretta opposizione al suo sentire: sono gli uomini cosiddetti d’azione, i quali si prefiggono delle mete e le raggiungono perché sono disinteressati alla causa profonda del loro agire. In sostanza, non hanno pesi che possano rallentate o, addirittura, interrompere il cammino. Ma in questa situazione dal sapore manicheo irrompono anzitutto a livello psicologico, corrosivi dubbi: chi ha raggiunto l’agognata meta, ha ottenuto una vittoria completa, o, a ben giudicare, solo parziale? L’uomo d’azione, nel seguire il suo cammino, ha mai volto, almeno una volta, gli occhi verso il cielo come fonte d’ispirazione per il suo operare? E l’uomo dell’inazione, tutto preso a esaminare senza pietà sé stesso, e quindi con lo sguardo rivolto verso il basso, in realtà non ha mai sbirciato verso l’alto, con la timida speranza che il cielo lo possa assistere, confortare, ispirare?

L’uomo del sottosuolo reca con sé robusti echi di Amleto, anch’egli costretto all’inazione dal troppo pensare e dall’eccessivo filosofeggiare. «La ragione ci fa codardi tutti» sentenzia, con spietata lucidità, l’eroe shakespeariano. Ma è lo stesso Amleto che, rivolgendosi ad Orazio, dice che «ci sono più cose in cielo e in terra» di quante il fedele amico possa sognare nella sua filosofia. Amleto è perfettamente consapevole, nonostante la tragedia che sta vivendo, della forza che deriva dal cielo. Ed è la stessa consapevolezza che anima l’uomo del sottosuolo il quale — nel segno di uno sforzo titanico — muove dagli abissi della terra per guadagnare le vette celesti. E più egli nega, nel suo monologo, l’obiettività di questo movimento ascensionale, più, in realtà, ne evidenzia e suggella la verità e il carattere profetico.

di Gabriele Nicolò