· Città del Vaticano ·

L’esperienza del dolore e la riflessione sul futuro della cristianità

Davanti al mistero
della piccola Françoise

Emmanuel Mounier in una foto degli anni Quaranta
18 febbraio 2021

A settant’anni dalla morte di Emmanuel Mounier, la rivista «Studium», nel numero 4 di luglio-agosto 2020 (anno 116) ha ricordato il filosofo di Grenoble con un dossier, curato da Massimo Borghesi. Pubblichiamo integralmente qui di seguito il saggio Emmanuel Mounier. Rivoluzione personalista e fine della cristianità di Massimo Borghesi. Il testo introduttivo, Emmanuel Mounier. La vita, l’opera e la personalità, invece, è costituito dal primo capitolo del volume Il contributo filosofico di Emmanuel Mounier di Armando Rigobello (Roma, Fratelli Bocca Editori). Il testo, del 1955, è stato il primo volume uscito in Italia sulla figura di Mounier di cui Rigobello era uno specialista. Gli altri contributi del dossier sono a cura di Luigi Alici (Tra fede e storia: l’“ottimismo tragico” di Emmanuel Mounier) e di Calogero Caltagirone (“Essere e diventare persone”. Per un’etica del compimento in Emmanuel Mounier).

«Sono un intellettuale. Ciò comporta un certo numero di atrofie e di tic. Mi guarderò bene dal ritenermene esente. Ma spesso mi rivolgo con riconoscenza verso i miei quattro nonni contadini, davvero contadini tutti e quattro, con la terra sotto le scarpe, la levata alle tre del mattino e la fetta di salame tra le dita. Quando mi sento nell’intimo così estraneo alla mia gente, in quanto gente, quando mi sento fremere dinanzi alle false grazie, alle parole gonfiate, alle piroette o, all’altro versante (l’Università), allo spaventoso spirito di serietà, sento un nonno reagire in me, la sua salute mi scorre nelle vene, l’aria dei suoi campi mi purifica i polmoni, e allora ringrazio come tanti altri».

Questo il profilo che in una lettera a Xavier de Virieu del 1° marzo 1950, a meno di un mese dalla propria morte, dava di sé Emmanuel Mounier. Era nato il primo aprile 1905 a Grenoble; qui aveva compiuto gli studi liceali iscrivendosi poi, per desiderio della famiglia, alla Faculté des Sciences con la prospettiva di divenire medico. Lo studio e la formazione scientifica lo deludono però sino al punto da indurlo in uno stato di profonda depressione: «Sprofondo nella fisica, chimica, storia naturale. Disperazione fino al desiderio del suicidio. Per dimenticare sgobbo come un matto». Nel 1924 partecipa a un ritiro spirituale, l’esperienza che ne trae è decisiva: «Il ritiro è rivelatore. Vi leggo a lettere di fuoco la necessità di cambiare rotta». La conversione è verso un cristianesimo vivo, appassionato, eroico. Si orienta, come conseguenza, verso la filosofia. Per tre anni (1924-1927) segue i corsi di Jacques Chevalier all’università di Grenoble. Tra maestro e discepolo si stabilirà un rapporto intenso e fecondo destinato a incrinarsi solo a distanza di tempo, con la fondazione di «Esprit» e del suo itinerario intellettuale e politico. Chevalier lo introduce allo studio di Pascal, Blondel, Bergson, al filone quindi dello spiritualismo francese la cui traccia sarà ben presente nella formazione del personalismo mounieriano. Il 23 giugno 1927 Mounier consegue il diploma di Studi Superiori di filosofia con una dissertazione su «Il conflitto tra antropocentrismo e teocentrismo nella filosofia di Cartesio».

Alla fine di ottobre è a Parigi, alla Sorbona, per completare gli studi. L’impatto con l’università però lo delude, vi trova un accademismo e un formalismo insopportabile. Ottenuta l’agrégation sceglie una tesi sulla mistica svolgendo a tale scopo anche un viaggio in Spagna nel 1930. L’interesse al tema viene però meno. Nel 1929 aveva letto Charles Péguy. L’impressione tratta era di quelle decisive. In Péguy trovava conferma la sua idea di un cristianesimo autentico, incarnato nella storia, non disposto a venire a compromesso con il mondo del denaro e dell’ottusità. In collaborazione con George Izard e Marcel Péguy scrive La pensée de Charles Péguy, edito nel 1931 nella collana «Le roseau d’or», promossa da Jacques Maritain. Chevalier, Péguy, Maritain: tre incontri determinanti per la vita di Mounier. I rapporti con Maritain, sorti nel contesto del libro su Péguy, hanno il loro punto di riferimento nelle riunioni mensili di cattolici, ortodossi, protestanti, che si svolgono a Meudon a casa di Maritain. Qui Mounier conosce, tra gli altri, Berdiaev, Gabriel Marcel, Jean Daniélou. È proprio dal colloquio tra quest’ultimo e Maritain che nasce l’idea di una rivista, idea che si precisa nelle conversazioni tra Mounier, George Izard e André Déléage. Come scriverà poi Maritain: «Mounier e Izard, ai quali s’aggiunge Déléage, non intendevano lasciare il libro su Péguy senza un domani. Essi volevano formare un cenacolo, un focolaio attivo e aperto, un centro d’irradiazione attraverso il quale proseguire, nelle congiunture del 1930, l’opera di Péguy, in quello che aveva di sempre efficace, particolarmente per svincolare il mondo cristiano dalla corresponsabilità con le potenze del denaro e con il “disordine costituito”». La crisi economica del ’29 non è senza influsso in questa decisione, essa appariva soprattutto come «crisi di civiltà» a cui occorreva contrapporre soluzioni radicali. «Esprit» esce nell’ottobre del 1932. L’articolo di fondo Refaire la Renaissance, indica il programma della rivista nei seguenti punti: 1. dissociare lo spirituale dal politico, 2. anticapitalismo, 3. appello a una “rivoluzione” che instauri una democrazia sostanziale contro quella liberale, considerata formale e borghese. La prospettiva non era esente da ambiguità. Già all’uscita del secondo numero, Maritain sollevava perplessità sull’uso acritico della categoria di rivoluzione nonché sul fatto che quest’idea sembrava diventare il valore primario tra i collaboratori tradendo l’intenzione originaria della rivista. I dubbi si accentueranno l’anno successivo allorché la Troisième Force, il movimento guidato da Izard e fiancheggiatore di «Esprit», affermerà la priorità cronologica della rivoluzione collettivista con i comunisti su quella, da effettuarsi in un secondo momento, personalista. Come dirà Maritain, senza mezzi termini, questa era un’«imbecillità kerenskysta». Mounier, sia pure a malincuore, consentirà con l’amico. Al dialogo privilegiato con la sinistra, e nel dopoguerra quasi univocamente col P.C.F., egli era tuttavia portato dal suo giudizio sulla storia contemporanea e dall’interpretazione del marxismo come «verità impazzita», come «ultima eresia cristiana», interpretazione che doveva proprio alla riflessione di Maritain. Riguardo al giudizio storico l’equazione, data per ovvia, tra modernità e borghesia costituisce il termine di riferimento polemico. «Non c’è più nulla da attendersi dalla borghesia, presa nel suo insieme. La durezza, l’egoismo, l’imbecillità, o la molle mediocrità: ecco [...], quanto possiamo aspettarci da essa. E nel popolo che ritroveremo ancora una volta la carità e il fervore della storia», così scrive nel ’36, al tempo del «Fronte popolare». La borghesia appare a Mounier come il vero anti-Cristo. Rispetto a essa il comunismo, nonostante i suoi limiti, rappresenta un momento essenziale per il suo superamento. Di qui la sua indiretta valutazione in positivo. Nella sua opposizione al disordine capitalistico «il comunismo porta degli elementi anti-cristici, come lo stesso mondo cristiano, ma porta anche, ed è la sua carica misteriosa, una parte del regno di Dio». Al limite, il comunismo «ha il ruolo di far avanzare il regno», aiutando i cristiani a separarsi dalla società borghese, da quel connubio in cui consiste la “cristianità” stabilita che sarebbe all’origine della reazione marxista. Con questa interpretazione Mounier mostrava di sottovalutare l’ateismo in Marx, o quantomeno, sulla scia di Berdiaev e di Maritain, di intenderlo come semplice reazione — alla sua origine di carattere morale — contro l’ingiustizia esistente e non già come potenziamento dell’immanentismo e razionalismo propri della filosofia hegeliana. Ne viene, a partire dal presupposto che il cristianesimo moderno è irrimediabilmente compromesso con la borghesia, il giudizio obbligato per cui la fede cristiana può rinnovarsi solo mediante la fine della cristianità. E in particolare durante il periodo bellico che Mounier riflette su questo declino.

Nel ’41 scrive: «Più approfondisco la realtà iniziale del cristianesimo, confrontandola con quella presente nel cristianesimo moderno, più mi persuado che noi tutti ritroveremo la vera fede solo dopo un crollo così totale della cristianità moderna che molti penseranno di essere giunti alla fine del cristianesimo».

A questo evento sono dedicati L’affrontement cbrétien (1945) e Feu la Chrétienté (1950). In essi i sintomi della crisi sono colti con acutezza e lucidità: «Il cristianesimo oggi non è minacciato di eresia: esso non appassiona più a sufficienza perché questo possa accadere; è minacciato da una specie di silenziosa apostasia provocata dall’indifferenza che lo circonda e dalla sua propria distrazione. Questi segni non ingannano: la morte s’avvicina».

Il declino gli appariva inevitabile; la cristianità non sembrava capace di rispondere alla sfida di Marx e poi di Nietzsche sulla fede come depotenziamento della vita. «Questi esseri curvi che camminano nella vita di sbieco e con gli occhi bassi, queste anime sgangherate, questi calcolatori di virtù, queste vittime domenicali, questi timidi devoti, questi eroi linfatici, questi teneri bebé, queste vergini sbiadite, questi vasi di noia, questi sacchi di sillogismi, queste ombre di ombre, possono forse essere l’avanguardia di Daniele in marcia contro la Bestia?». L’analisi del negativo era acuta e vibrante. Dietro v’era il desiderio di un cristianesimo autentico, positivo. Come scriveva ne L’affrontement cbrétien, «Per cancellare di colpo tante immagini deprimenti bastano dieci visi di monaci perduti in fondo a un monastero, o quella contadina spagnola che intravidi un giorno nel più fitto segreto di una chiesetta di Toledo, con le braccia allargate in un gesto sovrano, eretta come una regina, mentre pregava in ginocchio. Ma bisogna dunque frugare nei monasteri e nelle cappelle castigliane per raccogliere i riflessi morenti di un fuoco che deve incendiare il mondo?».

Per Mounier «in molte nazioni d’Occidente si arriva a chiedersi se il cristianesimo, che ancora vi sembra potente, sia ormai in esse altro che un’illusione collettiva. Sulla persistenza delle cerimonie e l’ondata sonnolenta delle folle, già si scorgono, minuti ma sempre più numerosi come le prime gocce di un uragano, i segni furtivi della più grande tempesta, forse, che debba sommergere gli edifici della cristianità». Per il grande ammiratore di Péguy non si trattava di una profezia. «Intravedo un’ipotesi che non è un gioco dello spirito. In quel giorno, che può non venire, ma può anche essere vicino, potremo chiederci se sarà rimasto un solo cristiano nel mondo civile. Bisognerà cercare nelle catacombe e alla macchia il cristianesimo eroico in cui si rifarà, in una vita coraggiosa, una visione nuova della tradizione eterna». Per lui quella tradizione era viva. Agli inizi del 1940 alla figlia, la piccola Françoise, era stata diagnosticata una encefalite acuta, una malattia invalidante, senza rimedio. Mounier, ferito e percosso nell’animo, scoprirà, di fronte al «povero volto offuscato», una realtà fatta di mistero.

«Ho avuto la sensazione, avvicinandomi al suo piccolo letto senza voce, di avvicinarmi ad un altare, a qualche luogo sacro dove Dio parlava attraverso un segno. Ho avvertito una tristezza che mi toccava profondamente, ma leggera e come trasfigurata. E intorno ad essa mi sono posto, non ho altra parola, in adorazione. Certamente non ho mai conosciuto così intensamente lo stato di preghiera come quando la mia mano parlava a quella fronte che non rispondeva, come quando i miei occhi hanno osato rivolgersi a quello sguardo assente, che volgeva lontano, lontano dietro di me, una specie di cenno simile allo sguardo, che vedeva meglio di uno sguardo. Se è vero che ogni autentica preghiera si fonda sulla morte delle potenze, sensibili, intellettuali, volontarie, se la sottile punta dell’anima di un bambino battezzato, come ha scritto non so più quale grande autore spirituale, è messa immediatamente in contatto diretto con la vita divina, quali splendori si nascondono allora in questo piccolo essere che non sa dire nulla agli uomini? Per molti mesi, avevamo augurato a Françoise di morire, se doveva rimanere così com’era. Non è sentimentalismo borghese? Che significa per lei essere disgraziata? Chi può dire che essa lo sia? Chi sa se non ci è domandato di custodire e di adorare un’ostia in mezzo a noi, senza dimenticare la presenza divina sotto una povera materia cieca? Mia piccola Françoise, tu sei per me l’immagine della fede. Quaggiù, la conosceremo in enigma e come in uno specchio».

Era quanto scriveva a Paulette, l’amata consorte, «Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, un po’ di vita dolorante, e non invece una bianca piccola ostia che ci supera tutti, un’immensità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo faccia a faccia; se ogni colpo più duro non fosse una nuova elevazione che ogni volta, allorché il nostro cuore comincia ad abituarsi al colpo precedente, si rivela come una nuova richiesta di amore (...) Se a noi non resta che soffrire (subire, patire, sopportare) forse non ce la faremo a dare quello che ci è stato chiesto. Non dobbiamo pensare al dolore come a qualcosa che ci viene strappato, ma come qualcosa che noi doniamo, per non demeritare del piccolo Cristo che si trova in mezzo a noi, per non lasciarlo solo ad agire con Cristo. Non voglio che si perdano questi giorni, dobbiamo accettarli per quello che sono: giorni pieni d’una grazia sconosciuta».

di Massimo Borghesi