· Città del Vaticano ·

Amati per amare

Marko Ivan Rupnik, «Gesù abbraccia il samaritano»
17 febbraio 2021

«Quaresima: tempo per rinnovare fede, speranza e carità». Così Papa Francesco nel suo messaggio a noi, discepoli di quel Gesù che (At 1, 1) «cominciò prima a fare e poi a insegnare». «Fare»: la fede è morta se non “fa”, e fede salvifica è quella che «opera attraverso la carità» (Gal 5, 6).

È sostanza dell’annuncio cristiano, ove Dio, il Dio che è Gesù Cristo, è identicamente l’amore infinito.

Quaresima: tempo di digiuno, tempo di preghiera, tempo di riflessione.

Papa Francesco in questo messaggio scrive, citando la Fratelli tutti (183): «La carità, col suo dinamismo universale, può costruire un mondo nuovo, perché non è un sentimento sterile, bensì il modo migliore di raggiungere strade efficaci di sviluppo per tutti».

A Natale noi affermiamo: «Il Verbo si è fatto carne»,  e in sostanza affermiamo che Dio è entrato in un “mistero di limitazione”: Dio ha accettato i nostri stessi limiti, «si è rivestito di debolezza» (Eb 5, 2), la nostra. E poi ha accettato perfino quello che apparve il limite dello scacco supremo: la sera del giorno di Pasqua è la delusione di due discepoli: «... Speravamo!» (Lc 24).

«La proprietà dell’amore sta nell’abbassarsi», scriveva santa Teresa del Bambino Gesù. Intuizione che ha la base nella rivelazione che il Dio che è Amore si è incarnato in Gesù abbassandosi alla nostra condizione. È Filippesi 2, l’inno a Gesù Cristo, il Verbo divino che «non ha ritenuto oggetto di possesso rapinoso il suo essere uguale a Dio, ma si è svuotato facendosi simile a noi». Chi ama si abbassa a livello di coloro che ama, anzi si sottomette a essi, si spende per essi e dà la vita per loro. Perciò se si parla di amore, quando si tratta di noi e del nostro amore attivo, esso implica due dimensioni, la prima di un amore grato a Dio che ci ha creato, ci salva, la seconda a sorpresa che per essere autentica offerta d’amore deve abbassarsi al livello del nostro prossimo. Questa è la vera grande sorpresa della rivelazione propriamente cristiana.

Nel capitolo 13 della Lettera ai Corinzi di san Paolo troviamo l’inno-elogio della carità. San Paolo parla dell’amore, certamente. Ma non è l’amore che è Dio, e neppure l’amore per Dio stesso. Solenne con l’annuncio che segnala “la via più eccellente” di ogni altra egli parla dell’amore per il prossimo, che non si gonfia, non chiede quello che è suo, è cordiale, è paziente, ecc. A prima vista potrebbe sembrare strano. Qualcuno pensa che amare Dio sia diverso e sia più importante che amare il prossimo, tutto il prossimo, a cominciare da quelli che qui e ora hanno bisogno concreto del nostro amore.

San Giovanni della Croce, un santo che è ricordato per le sue altezze celestiali, ha lasciato questa frase forte: «Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore». È Vangelo! Il giudizio vero sarà su un solo tema: «Avevo fame, e mi hai dato da mangiare» e via così... «Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo — ci ricorda Papa Francesco —, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo». (Misericordiae vultus, n. 15). Per noi l’unico modo vero e per questo salvifico di conoscere Dio è riconoscerlo nell’affamato, esule, perseguitato, carcerato...

Dio ama; e l’unica ragione che ha di amare è che Lui non ha — a differenza di noi — alcuna ragione per amarci. Ancora Teresa di Lisieux: «Tutto è grazia», amore per amore, all’infinito. E questo pensiero ha radici antiche, anche se spesso dimenticate da noi che abbiamo costruito — magari in buona fede — una religione tutta nostra, fatta di precetti e di usanze devote, carica di simboli e di rituali da osservare. I sacrifici e le feste liturgiche, e le novene, pur importanti per un cammino di fede, e tutte le ritualità dette religiose possono rimanere vuote e non gradite al Signore. Certi passi di Isaia sono terribili: «Che me ne faccio delle vostre feste? Della vostre processioni! Avete le mani sporche di sangue dei poveri! Lavatevi! Purificatevi! Rendete giustizia all’orfano, difendete la vedova!» (Is 1, 11-17). La fede e la carità devono camminare insieme.

San Giacomo: «Questa è la religione pura e senza macchia davanti a Dio e agli uomini: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni e conservarsi puliti da questo mondo» (Giac 1, 27). C’è un passaggio nella Gaudium et spes, n. 69, che viene poco ricordato, che dice: «Nutri colui che è moribondo per fame, perché se non l’avrai nutrito, lo avrai ucciso». Non dice “se non l’avrai nutrito morirà”, perché c’è una bella differenza fra morte e omicidio. No, “se non lo avrai nutrito”, potendolo nutrire, “l’avrai ucciso”, sei responsabile della sua morte.

Come possiamo rimanere indifferenti in questi giorni davanti al dramma delle persone che muoiono di fame in Etiopia! Non se ne parla o se ne parla, è con voce flebile e sotto tono! Ma non possiamo rimanere indifferenti, non possiamo girarci dall’altra parte, perché abbiamo i nostri problemi, perché abbiamo i nostri compiti, perché dobbiamo servire al tempio! Ritrovare Dio significa, dunque, tornare a vederlo nell’uomo, nell’ultimo, nelle periferie.

La carità è vera se è accoglienza dell’altro. La carità evangelica si apre alla persona, coinvolge la nostra stessa persona ed esige conversione del cuore. Può essere facile aiutare qualcuno senza accoglierlo. Accogliere il povero, il malato, lo straniero, il carcerato è fargli spazio nel proprio tempo, nella propria casa, nelle proprie amicizie, nella propria città, nelle proprie leggi. Papa Francesco nell’Evangelii gaudium ci chiede di convertirci, di credere, credere fermamente che la nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica dell’esistenza dei poveri e a porli al centro del cammino della Chiesa. «Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici ad ascoltarli a comprendere ed accogliere la misteriosa Sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso loro» ( Eg n. 198). È un cammino di conversione, è un cammino quaresimale, è un cammino di preparazione alla vera rinascita con un’attenzione rivolta all’altro considerandolo come unica cosa con se stesso.

La carità, però, non è solo accoglienza ma anche condivisione. San Paolo ne parla in maniera molto precisa perché porta l’immagine del corpo. Cosa avviene nel corpo? Nel corpo avviene che il sangue, la linfa è veramente diffusa e condivisa in tutto l’organismo. Se per ipotesi ci fosse una parte dell’organismo che assorbe in maniera innaturale una parte del nutrimento che arriva, diciamo che c’è malattia. Il tumore tutto sommato sviluppa questa situazione, perché abbiamo che là dove la massa tumorale si ingrandisce, si gonfia, ma il corpo globalmente dimagrisce, là c’è malattia. Così anche tra noi! Però il discorso della condivisione fa difficoltà a entrare soprattutto nella nostra cultura occidentale, perché noi abbiamo forte l’idea del possesso.

L’idea che chi ha molte cose conta molto, che chi ha molte cose è molto importante, fotografa la civiltà di oggi, quella del possesso e non quella dell’essere. Passa in secondo ordine il fatto della persona e tutto sommato questa mentalità ci allontana da un discorso religioso, perché porta a convincerci, lentamente, senza che ce ne accorgiamo che, tutto sommato, noi siamo importanti perché siamo padroni di molte cose, che possiamo disporre di molte cose. Chi non può disporre di molte cose, il povero, è uno che non conta. Quando si parla di condivisione vuol dire dividere quello che si ha partendo dall’idea che tutto è dono di Dio, per cui il discorso del dono, è un discorso tipicamente religioso. Io sono dono di un altro! Non si può partire dalla convinzione che siamo i padroni della nostra vita e quindi condividiamo un bene con gli altri. L’unico padrone è Dio. Noi siamo soltanto degli amministratori. Nella misura in cui invece ci comportiamo da padroni, anche senza dirlo materialmente, funzioniamo da atei di fatto. Il Vangelo è arrivato a noi molte volte, ma l’acqua è scivolata sull’impermeabile, è arrivata giù ma non ci ha cambiato dentro. Vivere una Quaresima di carità, scrive Papa Francesco, vuol dire prendersi cura di..., con lo stesso amore di Yahweh descritto nel libro dell’Esodo: «Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero» (Es 2, 23-25).

di Enrico Feroci
Cardinale parroco a Santa Maria del Divino Amore a Castel di Leva