· Città del Vaticano ·

L'appello contro la tratta
Dopo le parole del Papa tre donne vittime del traffico di esseri umani raccontano le loro drammatiche storie

«Mamma, quando vieni a prenderci?»

 «Mamma, quando vieni a prenderci?» Tre voci dall’inferno della tratta  QUO-034
11 febbraio 2021

Questa è la testimonianza di tre donne vittime della tratta di esseri umani, dramma al quale Francesco ha dedicato un messaggio diffuso in occasione della Giornata di riflessione celebrata l’8 febbraio scorso. Oggi sono in Italia, accolte in due centri gestiti dalla cooperativa Auxilium, Mondo Migliore a Rocca di Papa e dal Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Bari. Le tre donne hanno accettato di ripercorrere la loro storia -— che ha raccolto per noi Roberto Rotondo grazie alle operatrici Auxilium che si prendono cura di loro — ma abbiamo omesso i nomi per la giusta riservatezza e protezione. Sono vissuti drammatici, a volte tragici, ma comuni a tante persone che arrivano in Italia in cerca di un futuro. Persone e non numeri da inserire nel bollettino mensile degli sbarchi.

Come tante donne costrette a fuggire dal Paese di origine, ho avuto anche io la sfortuna di incontrare una maman, una figura che è tutt’altro che una madre, perché ti promette un futuro e, poi, invece di proteggerti, ti rende schiava, perché agisce per conto dei trafficanti. Io vengo dalla Nigeria, che ho lasciato ormai nove anni fa, quando avevo solo venti anni, perché mio fratello — con il quale sono cresciuta in quanto siamo orfani di entrambi i genitori — era ricercato da un clan rivale, che voleva vendicarsi anche su di me.

Per questo sono scappata vagando senza meta, fino a quando, in un bar, fui avvicinata da una signora che mi propose di andare in Europa per lavorare come cameriera. Mi disse che avrebbe pensato lei a tutto e io avrei ripagato il viaggio con il mio lavoro. Così nel 2012 sono arrivata in aereo a Modena, debole perché avevo subito un intervento di appendicite prima di partire, ma fiduciosa. Ad attendermi all’aeroporto c’era la maman, ma dopo poco capii che ero finita in una trappola, perché quella donna mi ordinò di fare la prostituta: mi rifiutai, dissi che stavo male, mi ribellai, ma gli uomini del racket mi rinchiusero e mi picchiarono brutalmente, finché non fui costretta ad accettare.

Passò un tempo — non contavo più i mesi — nel quale feci quello che mi dissero di fare. Poi conobbi un ragazzo e ci innamorammo. Con lui sono fuggita e ho avuto due figli, il primo è nato in Italia nel 2015, il secondo in Francia, dove ci eravamo trasferiti per non farci trovare dai trafficanti che continuavano a perseguitarmi. In Francia ho cercato di ricostruire una vita onesta, ma non mi è stato riconosciuto il diritto all’asilo e, anzi, nel 2019, per il regolamento di Dublino, sono stata rimandata in Italia. Sono stata accolta a Mondo Migliore insieme ai miei due figli, dove ho iniziato di nuovo il mio percorso di rifugiata. Anche se resta molto da fare, vedo i miei bambini contenti e sono tornata a sperare.

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Ho 35 anni, vengo dalla Nigeria e da due anni vivo a Mondo Migliore. Provo grande sofferenza e rabbia nel parlare del mio passato, perché ho avuto una vita difficile ed esperienze terribili, sia nel mio Paese di origine che in Italia.

Da bambina i miei genitori morirono in un incidente stradale e con un fratellino molto piccolo fummo presi in casa da un parente, dal quale dovetti fuggire con mio fratello quando avevo 14 anni. Un’amica mi prese in un ristorante, ma dopo due anni persi il lavoro e iniziò un calvario: una signora mi convinse a seguirla nella capitale promettendomi un nuovo lavoro, ma arrivata ad Abuja mi costrinse a prostituirmi, minacciando di fare del male a mio fratello. Passarono due anni nei quali sono riuscita anche a far studiare mio fratello, ma un giorno, mentre ero in strada, sono stata rapita da una setta che pratica magia nera e sacrifici umani.

Mi salvai solo perché non venni giudicata idonea al sacrificio, ma la mia maman, la protettrice, si convinse che non potevo restare lì e mi mandò in Italia, a Milano, dove venni fatta prostituire nelle periferie per sei anni. Stanca di quella vita, scappai anche grazie a un’anziana signora italiana che mi prese con lei come badante. Alla sua morte, però, venni allontanata dai figli e mi trasferii a Piacenza, dove fui trovata dalla maman, perché i trafficanti non si rassegnano mai, devono dimostrare in ogni modo che non puoi fuggire da loro. Per costringermi a tornare sulla strada rapirono mio fratello, ma venni fermata dalla polizia e portata al Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria a Roma. Da lì sono stata inviata al centro accoglienza Mondo Migliore, che oggi è la mia casa.

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Sono nata 29 anni fa in una famiglia cristiana molto povera della Costa D’Avorio. Mio padre quando ero piccola mi promise sposa a un uomo musulmano più grande di me di 35 anni, ricevendo denaro in cambio. Fu quella la prima volta che venni venduta.

Subito dopo la morte di mio padre, all’età di 13 anni, quell’uomo venne a prendermi per portarmi a casa sua con la prima moglie e i due figli. Lui dormiva con lei, che era molto gelosa, mentre a me era destinata un’altra stanza della casa e quando mi rifiutavo di avere rapporti sessuali mi picchiava. Da questa unione forzata è nata quasi subito la mia prima figlia e il parto non è stato facile, perché ero troppo giovane. Dopo la nascita del secondo figlio, per formalizzare il matrimonio, volle che mi convertissi all’islam e che mi sottoponessi alla infibulazione. Fui condotta da una signora che effettuava quella pratica, ma quando ho sentito le urla di chi mi precedeva, approfittando di un momento di distrazione, sono riuscita a scappare. Ho preso i miei figli e sono andata in Mali da un’amica. Lei mi mise in contatto con un uomo che trasportava le persone in Libia per lavorare e ho pagato 150.000 franchi cfa per il viaggio. Non avevo soldi sufficienti per portare con me i bambini, così sono stata costretta ad affidarli alla mia amica. Non sapevo che il viaggio per la Libia sarebbe stato tanto pericoloso: una notte sono stata prelevata dalla mia abitazione, condotta in un punto di raccolta in un bosco, fatta salire su un camion e portata via. Tre giorni di viaggio senza nulla da mangiare.

Arrivata in Libia, uomini armati ci hanno fatto entrare in una grande prigione. Ogni mattina ci portavano in un edificio abbandonato, obbligandoci a prostituirci. Questo, dunque, era il lavoro per il quale mi avevano preso in Mali. La sera ci riportavano indietro nella grande prigione e ci davano qualcosa da mangiare. Ci dicevano che i soldi guadagnati servivano per pagarci il viaggio verso l’Italia. Sono stata lì per quattro anni, senza avere la possibilità di contattare i miei bambini. Un giorno mi hanno portato in riva al mare per imbarcarmi. Appena partiti abbiamo rischiato di naufragare per un’avaria al motore e la Marina libica ci ha riportato indietro, in prigione. Questa volta per essere liberati era necessario chiamare i familiari per pagare un riscatto. Ho visto alcune mie compagne violentate e poi ammazzate perché non potevano trovare il denaro. Altre donne si sono ammalate e sono morte.

Un giorno, mentre i carcerieri trasferivano i cadaveri, sono riuscita a scappare. Ho incontrato un uomo che, in cambio di prestazioni sessuali, mi ha pagato il viaggio per raggiungere l’Italia.

Finalmente qui, dopo quattro anni, sono riuscita a contattare i miei figli, che amo più di ogni cosa. È per me un grande dolore sapere che stanno patendo la fame e cercare di rispondere alla domanda che mi fanno sempre: «Mamma, quando vieni a prenderci?».