· Città del Vaticano ·

L’esigenza di un ecumenismo sapienziale

Qoelet
nostro contemporaneo

René Magritte, «Golconda» (1953)
10 febbraio 2021

La tradizione biblica, nella riconosciuta pluralità letteraria e teologica che la intesse, racchiude schemi diversi per affrontare le grandi crisi dell’essere umano e per illuminare con speranza le stagioni d’incertezza della storia. Due di questi schemi, spesso presentati come contrapposti, sono l’apocalittica e la sapienza. In realtà, entrambi sono discorsi di crisi, poiché sia l’uno sia l’altro si costruiscono come reazione alternativa a una congiuntura precisa. La sensibilità apocalittica, erede diretta del profetismo, parte tuttavia da una visione lineare del tempo che proietta il suo epilogo risolutivo nel futuro, poiché non crede nelle possibilità effettive di trasformazione del presente storico, visto soprattutto come luogo per l’esercizio di perseveranza nell’attesa di ciò che si rivelerà. Al contrario, la visione del tempo plasmata dalla sapienza è capace d’integrare in una dinamica di revisione critica e costruttiva anche le discontinuità, gli interrogativi e i dilemmi che emergono nei diversi passaggi della storia, risvegliando pazientemente la nostra competenza critica, dando una profondità riflessiva al nostro sguardo e sfidandoci a un impegno con la conversione effettiva del presente. L’apocalittica pratica una radicale contestazione della storia attuale e si proietta in ciò che verrà. La sapienza invece non rinuncia all’attualità, cerca anche di ri-orientarla, ci dice che siamo ancora in tempo, che possiamo ancora fare qualcosa e la terapia che propone è il discernimento, la presa di coscienza attiva della nostra situazione o la meditazione approfondita su ciò che stiamo vivendo alla luce della globalità del destino umano.

La sapienza e un’apocalisse prêt-à-porter


Nella cultura contemporanea vediamo trionfare, a volte in modo precipitoso, una “logica dell’apocalisse”, che si avvicina solo apparentemente a quella biblica, con la quale — è vero — condivide un certo tipo di linguaggio, ma che dal punto di vista dei contenuti non può essere più opposta. Di fatto, l’apocalittica biblica è una grammatica di speranza, mentre le molteplici raffigurazioni di un’apocalittica prêt-à-porter che incontriamo oggi disseminate nella cultura, nella politica e nella rappresentazione del mondo trasmessa dai media sprofondano in un nichilismo paralizzante e autodistruttivo che Papa Francesco denuncia con coraggio nella recente enciclica Fratelli tutti. Nella diagnosi del momento presente che il Papa vi compie, avverte che la storia sta dando segnali di un ritorno all’indietro, riaccendendo conflitti anacronistici e forme di egoismo che si ritenevano superate (cfr. n. 11). Un modo pericoloso di dissolvere la coscienza storica è proprio quello di sostituire la sapienza con un’apocalisse caricaturale che sostituisce la mediazione e l’incontro con l’odio e il caos. Al posto del pensiero critico, vediamo praticare la manipolazione e la deformazione delle grandi parole come democrazia, libertà, giustizia, unità del genere umano, per riutilizzarle poi come un mero strumento di dominio (cfr. Fratelli tutti, n. 14). È in questo contesto, aggravato dalla pandemia, che ci accostiamo al libro di Qoelet, per ascoltare il suo insegnamento. Ma una cosa deve risultarci chiara fin dall’inizio: se vogliamo veramente investire nella costruzione della fratellanza e dell’amicizia sociale dobbiamo dichiarare Qoelet nostro contemporaneo.

A che cosa serve la sapienza


«Mi sono proposto di ricercare e investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo» (Ec 1, 13). Fin dai suoi primi versetti, il libro di Qoelet spiega che prende la vita, questa nostra vita concreta che si svolge sotto il sole, come materia della sua ricerca. È alla storia propriamente detta che l’autore applica il suo cuore — sede dell’intelligenza —, per scrutare la realtà nelle sue aride contraddizioni, incoerenze e limiti, mostrando quanto sia vana l’illusione prometeica che la storia ha di sé stessa, quando si crede investita di forza, di conoscenza assoluta e di potere, e nasconde la sua illusione prometeica e le sue debolezze. Qoelet è un austero maestro perché rifiuta il cammino della condiscendenza, ma è un maestro vero, perché non affronta la vita come se fosse una finzione o un’ideologia. Piuttosto crede nel valore dell’esperienza, nel fare e rifare dell’esistenza in tutte le sue stagioni, nel gigantesco passo di civiltà che rappresenta, per esempio, il riconoscimento della vulnerabilità che ci ferisce e del bisogno di perdonare e di essere perdonati, riconoscendo l’ambiguità che è in noi. Qoelet è un austero maestro, ma non usa la decostruzione come un’arma: la usa come uno strumento per preparare la terra. Non si tratta di sradicare, ma di seminare. Seminare una visione onesta di ciò che in noi resta da fare, per chiarire e per decidere fino alla fine. Mostrando come siamo attraversati da tempi tanto diversi, che bisogna accogliere con speranza, in un interminabile apprendistato, e ascoltare con profezia. Il tempo non è solo una clessidra che ci svuota, non è solo il kronos che ci divora. Il tempo è “il nostro momento”, la nostra opportunità per crescere, maturare, per imparare a vivere con sapienza. Perciò Qoelet ci assicura: «Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare. Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via. Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace» (Ec 3, 1-8).

Le tre crisi, secondo Qoelet


Potremmo, credo, senza naturalmente pretendere di esaurire la notevole complessità ermeneutica di questa opera, individuare in Qoelet tre tesi fondamentali. E al tempo stesso constatare che queste tesi ci vengono incontro illuminando tre aspetti della crisi antropologica, e anche culturale, di cui oggi si parla meno a causa della situazione di emergenza sanitaria che stiamo vivendo, ma che ci fa bene non dimenticare.

1. La crisi di memoria e di trasmissione


La prima tesi è che si tratta di un’ingenuità pensare che il cammino storico si fa attraverso balzi di progresso e che ci guadagniamo nello smantellare criticamente la mistificazione che si fa dell’innovazione e della novità come automaticamente superiori (cfr. Ec 1, 4-11). Al contrario, il sapiente osserva che il corso del sole si ripete ogni giorno, che il vento va e viene, che i fiumi sfociano nel mare senza che il livello dell’oceano cambi, che la struttura cosmica del mondo ha una stabilità che dovrebbe far riflettere l’essere umano.

Il nostro problema è che le generazioni si succedono senza un’effettiva alleanza che le unisca. Il sapere che i più anziani trasmettono è frettolosamente considerato superato e non più valido. Siamo società che non vogliono ascoltare la voce degli anziani, società divorate dall’amnesia. Scrive Qoelet: «Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno, si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito» (Ec 1, 11). Oggi tutti corriamo, ma senza passarci il testimone, senza dire all’altro che deve correre per noi e a nome nostro, senza investirlo di quel capitale di fiducia che gli permetterà di essere. Questa crisi di memoria e di trasmissione si vive a tutti i livelli: in famiglia, nelle istituzioni, nella società nel suo insieme.

Nell’era della comunicazione resta tanto da dire, forse l’essenziale. Viviamo immersi in messaggi, ma ammalati di un’afasia, di un’incapacità d’interpretare la vita in profondità e di stabilire, in modo esplicito, i nuovi nessi. È come se ogni generazione provenisse dal nulla. Non di rado, le nuove generazioni guardano indietro e non scorgono testimoni, trasmissori, mediatori per il passaggio che devono compiere da una riva all’altra. Fenomeno aggravato dall’impulso tecnologico che caratterizza il nostro tempo e fa sì che siamo tutti un po’ come alberi senza radici. Erroneamente pensiamo di essere gli antenati di noi stessi e spezziamo così il filo prezioso della tradizione. Da qui l’improrogabile urgenza di rilanciare un’alleanza intergenerazionale. La trasmissione ci rivela non ciò che possiamo imparare, ma ciò che siamo. Ci spiega chiaramente che non siamo all’origine di noi stessi, ma che siamo ciò che riceviamo dagli altri, siamo espressione del dono, una preziosa eredità che ci trascende. Trasmettere consiste nell’inserire l’essere umano in una storia. E dirgli: tu sei questo, tu sei parte di un passato o di un futuro, tu sei coprotagonista di una comunità e di una storia comune.

2. La crisi dei modelli di felicità


La seconda tesi del Libro di Qoelet è che è insensato fondare la ricerca di realizzazione su una visione materialistica, utilitaristica ed edonistica della vita. E il sapiente riferisce l’esempio della sua storia: «Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. Mi sono fatto parchi e giardini… Ho acquistato schiavi e schiave… Ho accumulato anche argento e oro, ricchezze di re e di province… Sono divenuto grande, più potente di tutti i miei predecessori in Gerusalemme» (Ec 2, 4-9). Ma quando si riduce l’esistenza alla sua stretta materialità, come confessa Qoelet, arriva il momento in cui si comprende che «tutto mi è apparso vanità e un inseguire il vento: non c’è alcun vantaggio sotto il sole» (Ec 2, 11). La sapienza di Qoelet rivela così la crisi dei modelli di felicità assenti nel benessere materiale. Manca una visione integrale della vita, che è necessariamente una visione sapienziale che abbraccia l’esistenza umana nella sua interezza. La nostra società ha dichiarato tabù la malattia, la sofferenza, l’invecchiamento e la morte. In tal senso la denuncia di Qoelet è molto attuale poiché in società consumistiche come le nostre diventiamo facilmente analfabeti della vita e delle sue espressioni fondamentali. In una società vista come un mercato dimentichiamo facilmente ciò che non si compra né si vende. La felicità, di fatto, non è un automatismo, ma una costruzione sapienziale. È una visione diversa, più ampia e inclusiva di quella che noi abbiamo. Spesso è la vulnerabilità il nostro inaspettato maestro, poiché ci rivela la nostra condizione, ciò che preferiamo non vedere.

3. La crisi di maturazione o la prova del tempo


La terza tesi di Qoelet è che dobbiamo comprendere che cos’è il tempo, sia nella sua precarietà (poiché nasciamo e moriamo, tutto ha un principio e una fine) sia nella sua opportunità (poiché è finché abbiamo tempo che possiamo agire: «prima che si rompa il cordone d’argento e la lucerna d’oro s’infranga e si rompa l’anfora alla fonte e la carrucola cada nel pozzo e ritorni la polvere alla terra, com’era prima, e lo spirito torni a Dio che lo ha dato» (Ec 12, 6-7). O, come dice Qoelet in un altro passo: «Finché uno è unito a tutti gli altri viventi c’è speranza» (Ec 9, 4). Il tempo non può solo consumarci, senza che attraverso di esso ci avviamo a consumare la promessa. In tal senso, possiamo dire che Qoelet illumina la crisi di maturazione perché trascende l’uomo contemporaneo che si oppone ad accettare la vera natura del tempo. La conclusione di Qoelet è che c’è un tempo per tutto e la vita ci chiede una visione poliedrica e inclusiva, capace di rispecchiare la totalità. L’esistenza non è immunizzata. Non è guidata da un determinismo che la rende indifferente alle circostanze. È un’illusione pensare che teniamo tutto sotto controllo. Ma, in fondo la proposta di Qoelet è teologica: afferma che c’è il tempo di Dio che va oltre e molte volte rivoluziona la prevedibilità del tempo umano. Spesso l’uomo non riesce a percepire pienamente il senso e i nessi di tutto ciò che accade. Il senso del tempo nella sua durata totale trascende il nostro sguardo, appartiene al piano del mistero. E non possiamo perdere il senso del mistero. La vita è più grande dell’espressione dell’esistenza individuale o di quella di un’epoca. Non ci basta un concetto di tempo lineare, ininterrotto, meccanizzato, puramente storico. Il continuum omogeneo del tempo che la teoria del progresso delinea non conosce la rottura portata dalla novità sorprendente dello Spirito. Tuttavia, il momento presente non è solo un passaggio orizzontale, quantitativo, nella prospettiva di una realizzazione tra questo istante e quello che lo segue. Ma il presente ha anche un senso verticale che riqualifica il tempo, aprendolo all’eternità. È il tempo qualitativo, epifanico. È il tempo della Promessa e della Salvezza.

Per un ecumenismo sapienziale


In base a tutto quanto detto finora, Qoelet non solo è un nostro contemporaneo, ma è anche un maestro di ecumenismo: di un ecumenismo sapienziale. La fede che le religioni rappresentano non è, né può essere, una sorta di escapismo che magicamente ignora o passa accanto a noi ciechi dell’esistenza, alle sue aspettative, fatiche e delusioni. Le religioni, nella loro architettura, includono una osservazione sapienziale della vita e dei suoi eventi. Nel mondo di oggi, abbiamo specialisti di ogni foggia e genere, siamo diventati una società di esperti, ora più che mai la tecnica e la scienza impongono i loro modelli. Ma ci mancano maestri capaci di fare una sintesi, competenti nell’arte d’illuminare il senso di ciò che stiamo vivendo. Abbondano le conoscenze, ma scarseggia la sapienza. La sapienza non significa un concetto, ma un’esperienza integrale della propria vita; uno sguardo d’insieme che abbracci non solo la parte, ma il tutto; non solo l’individuo, ma la comunità; non solo ciò che siamo stati, ma anche ciò che siamo e saremo. In tal senso le religioni rappresentano un patrimonio inalienabile di sapienza posto al servizio degli uomini. Ricorda Papa Francesco nella conclusione dell’enciclica Fratelli tutti: «A partire dalla nostra esperienza di fede e dalla sapienza che si è andata accumulando nel corso dei secoli, imparando anche da molte nostre debolezze e cadute, come credenti delle diverse religioni sappiamo che rendere presente Dio è un bene per le nostre società. Cercare Dio con cuore sincero, purché non lo offuschiamo con i nostri interessi ideologici o strumentali, ci aiuta a riconoscerci compagni di strada, veramente fratelli» (n. 274). Forse proprio noi, uomini e donne religiosi, appartenenti a tradizioni diverse, possiamo insieme fare di più rispetto alla curiosità, alla conoscenza e alla valorizzazione dell’immenso deposito di sapienza che ogni religione rappresenta. E possiamo investire di più in un ecumenismo sapienziale.

Il rivelarsi di Dio stesso


La sapienza si deve intendere come la qualificazione della vita umana che si confronta con le grandi questioni dell’esistenza in un’apertura al mistero, di cui la poetessa nordamericana Emily Dickinson diceva: «Quell’immensità non si può perdere». In una delle sue poesie, sfidava così il lettore: «Sotto! Esplora te stesso! Dentro te stesso troverai il continente inesplorato». Senza questa apertura al trascendente, senza questa esplorazione del divino che ci attraversa, come dichiara Qoelet «tutto è vanità» (1, 2). Il termine “vanità”, tanto ripetuto in questa opera biblica, ha un uso metaforico specifico che mira a mettere in guardia contro l’inconsistenza, il nonsense, spesso lo strano teatro dell’assurdo in cui la condizione umana si può trasformare quando si chiude soltanto in un orizzonte di realizzazione infra-storica. Vivere così è “vanità”, è accettare d’inseguire inutilmente il vento ( Ec 1, 14). Poiché all’essere umano non basta gestire le questioni penultime, né queste possono mai sostituire il confronto con l’orizzonte delle questioni ultime. La conclusione di Qoelet è perciò la seguente: «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l’uomo è tutto» (12, 13).

In verità, la sapienza non è solo, dal punto di vista della fede biblica, un’etica dell’esistenza umana in questo mondo. Non è un caso che in un determinato momento della rivelazione biblica si passa a parlare di “sapienza” come di una qualità divina. La sapienza non è altro che il rivelarsi di Dio stesso, del Suo Spirito che percorre e pervade di energia santificante la storia e gli eventi. Il discorso della sapienza ci fa così transitare dall’etica alla mistica.

di José Tolentino de Mendonça

Discorso in occasione della XXXII Giornata del dialogo ebraico-cristiano