· Città del Vaticano ·

Reportage

Gli orfani dell’Is come relitti

Women lead children ahead of departure during the release of another group of Syrian families from ...
05 febbraio 2021

Ventisettemila bambini, la gran parte sotto gli otto anni. Alcuni arrivati in braccio alle madri, altri nati lì, in una città di tende e fango, un campo prigione nel nord est della Siria per le vedove ed i figli del cosiddetto Stato islamico (Is) collassato nel 2016 dopo nove anni di guerra. Per le Nazioni Unite «uno dei problemi più urgenti al mondo». Anche uno dei più dimenticati, in un mondo dalla memoria già corta.

Ventisettemila piccoli fantasmi rimasti a galleggiare come detriti dopo l’implosione della follia terrorista che voleva farsi Stato ed aveva mosso guerra di conquista nel Medio Oriente. Negli anni in cui l’Is chiamò a raccolta da mezzo mondo aspiranti combattenti per far rinascere il Califfato, in tanti furono portati dai genitori — piccolissimi o appena concepiti — in queste terre, per essere allevati in un nuovo ordine. Sono stati indottrinati, hanno visto morire padre e madre, non conoscono altro che guerra, radicalismo, scontri, fazioni, punizioni. Il campo di Al Hol — fornace di polvere l’estate, pozza di melma d’inverno, ora assediato anche dal covid come avverte Medici senza frontiere — è la loro finestra sul futuro. Il recinto blindato, guardato dai soldati e le soldatesse dell’Sfd, è l’unico orizzonte che chiude lo sguardo e l’idea di come sia fatto il mondo.

Le Nazioni Unite, venerdì scorso, hanno lanciato un appello per la salvezza di quei 27.000 bambini. Lo spazio li tiene prigionieri ma il tempo è un nemico peggiore, perché plasma anime incapaci di libertà ed amore. Quando il responsabile per l’antiterrorismo delle Nazioni Unite, Vladimir Voronkov dice in una riunione informale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che quei piccoli sono «incagliati, abbandonati al loro destino» parla di vite umane prigioniere di un meccanismo ad orologeria. «Devono essere considerati innanzitutto come vittime, ed i minori di 14 anni hanno diritto di non essere detenuti e puniti» è stato l’appello rivolto al Consiglio da Voronkov.

Virginia Gamba, rappresentante alle Nazioni Unite per i bambini vittime di conflitti armati, si è fatta avvocata della causa sempre nel Consiglio di sicurezza: «I bambini — ha detto — hanno diritto ad una nazionalità e ad un’identità» . La guerra li ha privati innanzitutto di questo. Un volto, un nome. «Relitti» li ha definiti Gamba in Consiglio. Questi bambini sono, per più di un motivo, un problema di tutta la comunità internazionale. Arrivano da ogni parte del pianeta, anche dall’Europa, dal Regno Unito, dagli Stati Uniti, dall’India. Non c’è Paese dove il richiamo a popolare terre da colonizzare in nome del cosiddetto Stato islamico non abbia attirato aspiranti colonizzatori in cerca di una nuova collocazione sociale. Bambini d’ogni colore, divisi per provenienza nei gironi del campo: siriani ed iracheni — la maggioranza — nel corpo principale della struttura. Nei cosiddetti annessi, affidati alle Fsd curdo-siriane le altre nazionalità. Diecimila persone, donne con bambini piccoli e piccolissimi. 

Finita la guerra, il campo di Al Hol, come altri fra il nord est della Siria e l’Iraq, si è materializzato nel luogo degli ultimi assalti per richiudersi intorno al gregge allo sbando di donne e bambini. Da allora una sorta di maledizione ha reso Al Hol inespugnabile, luogo da dove non si fugge, è difficile entrare e poco si sa. Medici senza frontiere ne ha fatto, poco più di cinque mesi fa, una descrizione agghiacciante: già costretti in una prigione iperaffollata gli «ospiti» dovrebbero rispettare anche il distanziamento per il covid dopo che 394 casi erano stati accertati. Le strutture per l’assistenza sanitaria — 24 in origine — stanno chiudendo una dopo l’altra. Quest’estate non ne restavano che 15. Poi si è arrivati a 5 per decine di migliaia di persone flagellate non solo dal covid, a fronte di nessuna assistenza possibile, ma anche da una micidiale esplosione di diarrea acuta. L’80% dei piccoli pazienti della struttura di Medici senza frontiere, aperta nella zona degli annessi, ne soffre. Malati, denutriti, prosciugati dalla diarrea, Msf offre loro quello che si chiama «centro di nutrizione terapeutica». Molti di questi bambini, infatti, non sono in grado di trattenere cibo normale. Mesi fa ne morirono sette in una volta e fece notizia. La mancanza di igiene, i continui tagli all’acqua corrente non fanno che allargare il disastro. La provincia di Hassasek, dove sorge Al Hol, è alla sete da quando l’acquedotto di Al-Halouk è stato danneggiato. Quasi mezzo milione di persone hanno un accesso penosamente insufficiente all’acqua. In un campo di prigionia, dove gli ospedali da campo chiudono e diversi operatori sanitari hanno contratto il covid, l’effetto è devastante.

Eppure i Paesi di origine non sanno, o non vogliono, gestire il ritorno alla società civile di minori traumatizzati e costretti a vivere in un microcosmo che riproduce, anche nelle gerarchie fra prigionieri, la follia fondamentalista. Se molte donne subiscono ce ne sono altre che hanno tenacemente ricostruito una catena di comando basata sulla paura e sul fanatismo. Per 27.000 bambini, malnutriti, malati, senza speranza, l’Is non ha mai perso la guerra.

di Chiara Graziani