· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
ANTON LEMBEDE

Un grande maestro
del panafricanesimo

Murales intitolato «Anton Lembede Bachelor of Law» nel centro di Durban in Sud Africa
29 gennaio 2021

La storia africana del Novecento è costellata di personaggi più o meno noti il cui contributo è stato rilevante dal punto di vista politico, in vista soprattutto del lungo e faticoso processo che negli anni ’60 ha inaugurato la stagione del riscatto dall’onta coloniale. Tra queste eccellenze spicca una figura, ancora poco nota in Europa, quella di Anton Muziwakhe Lembede (21 gennaio 1914 — 30 luglio 1947) le cui idee hanno avuto un notevole impatto sia in Sud Africa, come anche nello sviluppo fenomenologico del panafricanismo. Nacque in una famiglia di braccianti agricoli ad Eston, nei pressi di Pietermaritzburg, nel KwaZulu Natal in Sud Africa.

Battezzato nella comunità anglicana, dopo aver completato gli studi elementari, si trasferì con i suoi genitori nei pressi di Mbumbulu, sempre nella stessa provincia del Natal. Uno dei motivi del trasferimento era dovuto al desiderio dei suoi genitori di potergli garantire la possibilità di proseguire gli studi. Poco prima che lasciasse il suo villaggio natale, si convertì al cattolicesimo, una scelta che a detta dei biografi, plasmò la sua vita dal punto di vista dei grandi ideali. All’età di 13 anni venne iscritto alla scuola cattolica Inkanyezi, dove diede prova di grande talento in tutte le materie. Per l’ottimo profitto ottenne una borsa di studio per accedere all’Adams College di Durban, dove studiò per ottenere l’abilitazione all’insegnamento, dal 1933 al 1935.

Dal Natal, Lembede si trasferì nell’Orange Free State per insegnare e al contempo si iscrisse all’Università del Sud Africa (Unisa) per proseguire i suoi studi dove ottenne i diplomi in Bachelor of Arts (Ba) e Bachelor of Law (Llb). Nel 1943 Lembede cambiò professione, abbandonò l’insegnamento per dedicarsi alla professione forense. Si trasferì a Johannesburg. Nel 1945, dopo aver presentato e discusso una tesi dal titolo «Il concetto di Dio come esposto e come emerge dai filosofi da Descartes ai giorni nostri», l’Unisa gli conferì un Master in Filosofia.

Al momento della sua morte, a soli trentatré anni d’età, stava studiando per conseguire il dottorato in giurisprudenza. Viene spontaneo domandarsi quale ruolo egli abbia rivestito nella riflessione politica di quegli anni e la risposta è che, sebbene si sia spento precocemente, si rivelò una figura molto importante nella costituzione di quella corrente africanista sudafricana che diede vita all’African National Congress (Anc), diventando peraltro il primo presidente dell’African National Congress Youth League (Ancyl).

L’Africanismo di Lembede criticò fortemente il pensiero filosofico moderno di matrice occidentale, considerandolo fondato sull’individualismo, sul razionalismo e sul materialismo. Di converso, incitò le popolazioni afro ad abbattere la dominazione intellettuale ed economica dei colonizzatori, ritornando all’essenziale visione dei propri antenati incentrata su un’indole (natura) intuitiva, comunitaria e fortemente orientata verso una dimensione spirituale. Fu questa una delle ragioni per cui rifiutò l’ideologia marxista considerata una delle espressioni più negative della concezione dell’esistenza umana.

Un’influenza rilevante, nella sua formazione, gli venne, negli anni da Albert John Lutuli, premio Nobel per la Pace nel 1960, che negli anni Cinquanta (quindi dopo la morte di Lembede), fu a capo del movimento nazionalista sudafricano, cui impose, come presidente dell’Anc, la linea politica della nonviolenza. È bene ricordare che Lutuli, figlio di un missionario avventista, era stato a sua volta ispirato dalla conoscenza del Vangelo («La via della libertà passa per la croce di Cristo») e dalla dottrina nonviolenta di Mohandas Karamchand Gandhi, comunemente noto con l’appellativo onorifico di Mahatma.

Non v’è dubbio che sia Lutuli, come anche Lembede, cogliessero la pesante contraddizione e dunque la dicotomia tra la predicazione cristiana e la condotta dei colonizzatori europei. In particolare, l’accorata difesa della società africana da parte di Lembede era motivata dalla crescente mitizzazione della cultura europea, con particolare riferimento alle sue perniciose ideologie, dei suoi costumi e dei suoi traguardi economici, un indirizzo di pensiero che aveva instillato nelle popolazioni autoctone afro, particolarmente in Sud Africa, un insano «inferiority complex» (complesso di inferiorità).

«La degenerazione morale sta assumendo dimensioni allarmanti — scrisse nel 1946 — si manifesta in fenomeni anormali e patologici, come la perdita della fiducia in sé stessi, il complesso di inferiorità, un sentimento di frustrazione, l’adorazione e l’idolatria nei confronti dell’uomo bianco, di ideologie e leader stranieri. Tutti questi sono sintomi di uno stato della mente patologico».

Il deterrente contro questa deriva psicologica e spirituale causata dai colonizzatori, secondo Lembede, era rappresentato proprio dall’Africanismo, vale a dire da una filosofia capace di innescare la «rinascita interiore dei popoli oppressi», ad esempio ricuperando la memoria delle gesta eroiche di personaggi come Shaka, fondatore dell’impero Zulu.

Lo scopo, per Lembede, doveva essere quello di riappropriarsi della propria identità esistenziale, la cosiddetta blackness (negritudine): «Orgoglio, sicurezza e autostima nel popolo africano», nel perimetro del continente a partire dal Sud Africa. Tutti sentimenti, questi, narcotizzati dal colonialismo invasivo e pervasivo. Ma attenzione, con questa sua critica, peraltro ben motivata, Lembede non volle sminuire il valore dei saperi e del progresso tecnologico dell’Occidente: «La Civiltà Bianca come intesa dai Bianchi in Sud Africa, vale a dire superiorità di colore, discriminazione e oppressione, non ha futuro in Africa; ma la cultura e la civiltà occidentale sotto forma di scienza, arte, filosofia, ha un futuro più lungo di quanto possiamo immaginare in questo continente, poiché quest’ultima, sebbene in larga misura sviluppata dagli europei, è ancora un’eredità, un’eredità di tutta la razza umana».

Pur nella sua breve vita, egli diede prova di influenzare il pensiero degli intellettuali afro del suo tempo, soprattutto in Sud Africa, auspicando un recupero, almeno in parte, del diritto consuetudinario incentrato sia nella comprensione del governo secondo i paradigmi tradizionali, ma soprattutto nell’affermazione di regole che potessero sostenere un’economia di comunione, fondata sul controllo delle risorse da parte dell’intera collettività.

Per coloro che hanno avuto modo di studiare la genesi del panafricanesimo e gli sviluppi politici, prima, nel 1963, attraverso l’Organizzazione dell’Unità africana (Oua) e poi nel 2002 con la nascita dell’Unione africana (Ua), è evidente che Lembede, con i suoi richiami all’unità e alla solidarietà africana, offrì un innegabile contributo concettuale al pensiero politico continentale, definendo l’Africa «blackman’s country», nella consapevolezza che «Fuori dalle tribù eterogenee, deve emergere una nazione omogenea. La base dell’unità nazionale è il sentimento nazionalistico degli africani, il sentimento di essere africani non curanti delle connessioni tribali, dello status sociale, dell’educazione ricevuta, o della classe economica».

Molto interessante è stata anche la riflessione di Lembede, dal punto di vista della teologia missionaria: «Accettando il Cristianesimo non abbiamo scoperto improvvisamente un nuovo Dio; quello che è successo è che la nostra vecchia concezione della Divinità è diventata più chiara e meglio definita». Una prospettiva spirituale, la sua, aperta comunque alla comprensione della novità apportata dalla Buona Notizia di cui fu sempre riconoscente ai missionari.

di Giulio Albanese