· Città del Vaticano ·

L’anno di Fëdor Dostoevskij (1821-1881)

Non un’idea
ma una presenza

Una scena dallo spettacolo «I demoni» di Peter Stein
28 gennaio 2021

«Tutto il mondo era condannato a rimanere vittima di una pestilenza terribile (…) erano comparse certe trichine sconosciute, esseri microscopici che si infiltravano nel corpo umano. Ma questi esseri erano spiriti, dotati di intelligenza e di volontà. Gli uomini che li lasciavano penetrare nel loro corpo diventavano subito indemoniati e pazzi. Mai, mai, però, gli uomini si erano ritenuti così intelligenti e così sicuri della verità, come si ritenevano quegli appestati. Mai avevano ritenuto più sicuri i loro giudizi, le loro deduzioni scientifiche, le loro convinzioni e credenze morali (…). Tutti erano in agitazione, non si capivano più fra loro, ognuno pensava di essere il solo a possedere la verità e si tormentava (…). Non sapevano chi e come giudicare, non riuscivano a mettersi d’accordo nel giudicare il bene e il male (…). Si preparavano a marciare gli uni contro gli altri con intere armate, ma queste armate, quando erano già in marcia, a un tratto cominciavano a dilaniarsi per conto loro, le file si scompaginavano, i combattenti si scagliavano l’uno contro l’altro, si infilzavano, si sgozzavano, si mordevano e si divoravano fra loro (…). Avevano abbandonato i mestieri più comuni, perché ognuno proponeva le sue idee, le sue innovazioni, e non riuscivano mai a mettersi d’accordo, l’agricoltura era ferma (…). Cominciarono a scoppiare molti incendi, cominciò la carestia. Tutto e tutti perivano. In tutto il mondo potevano salvarsi solo pochi uomini, i puri e gli eletti, che erano predestinati a iniziare una nuova razza umana e una vita nuova, a rinnovare e purificare la terra; ma nessuno aveva mai veduto questi uomini, nessuno aveva mai udito la loro voce e la loro parola».

Non è il brano di una cronaca romanzata di quanto sta accadendo in questi giorni, con la pandemia e lo sconcerto per le mille interpretazioni delle sue cause e le mille controversie sulle misure con le quali contrastarla. E non è neppure una descrizione esasperata della recente crisi politica.

È un brano di Dostoevskij, il sogno finale di Raskol’nikov, il giovane protagonista di Delitto e castigo che, convinto di essere un uomo a parte (Raskol’nikov vuol dire esattamente questo: il Raskol è lo «scisma» per antonomasia) un essere eccezionale per il quale non valgono le leggi, ritiene di poterle violare sino a uccidere, per costruire un mondo migliore; non è un giovane malvagio, ma l’idea che si è impadronita di lui come una malattia lo mette in una sorta di percorso obbligato nel quale tanto più è convinto di possedere la verità, e tanto più si allontana dalla realtà, così che le azioni che compie per il bene dell’umanità lo portano a uccidere realmente.

Dunque quanto viene immaginato nel romanzo è lontanissimo dalla realtà che stiamo vivendo: a dispetto di tanto complottismo e di ogni possibile esacerbazione della lotta politica, non ci sono Raskol’nikov dietro il virus e dietro le divisioni della nostra vita politica.

Eppure, nonostante questa certezza, resta sempre nei nostri occhi l’immagine di questa divisione che in nome della pretesa di possedere la verità si trasforma in odio per l’altro; nessuno ci toglie dalla testa quest’immagine di un’astrazione, con la promessa di un mondo migliore che però non appare mai concretamente da nessuna parte, così che nessuno più capisce quello che sta accadendo e il suo senso: i consueti criteri di giudizio vanno persi o non hanno più valore.

Quest’anno si celebrano i duecento anni dalla nascita di Dostoevskij e in questi giorni i centoquarant’anni dalla morte: sembra un mondo lontano, eppure queste pagine ci descrivono qualcosa che non smette di colpirci oggi, anche se va ben più a fondo di quanto accade alla superficie delle nostre giornate.

Nessuno di noi è Raskol’nikov, eppure, come ai tempi di Raskol’nikov in una Russia che si credeva ancora pienamente cristiana, anche da noi, oggi, la nostra società, spesso divisa tra un attaccamento accanito ai valori della tradizione e un relativismo assoluto, non sa trovare una risposta che superi la sterile contrapposizione tra chi allora si limitava a condannare Raskol’nikov, non lasciandogli più alcuna redenzione possibile (la risurrezione di cui gli parla Sonja, la prostituta) e chi in fondo si limitava a riconoscergli mille attenuanti (la povertà, le buone intenzioni, la bontà di cuore) che però lo lasciavano solo in un delitto di cui avvertiva comunque la non corrispondenza col suo cuore e la sua mente, tant’è che rischiava di impazzire e si rendeva comunque conto di non essere un uomo a parte.

Questa dimensione sociale della mentalità di Raskol’nikov e questo malanno sociale, che diventava sempre più contagioso, non erano sfuggiti a Dostoevskij e infatti sarebbero diventati il tema di un altro dei suoi grandi romanzi, I demoni, dove non c’era più un singolo indemoniato, ma un gruppo di rivoluzionari che uccideva un proprio compagno pensando che potesse tradire. Era una storia vera che Dostoevskij aveva preso dalla cronaca, romanzando un omicidio reale e le idee di uno dei grandi rivoluzionari del tempo Sergej Nečaev (1847-1882), il prototipo del rivoluzionario nichilista che non sognava semplicemente di abbattere il vecchio mondo per sostituirlo con uno migliore, ma voleva diffondere mali e sciagure per spingere il popolo a «una rivoluzione che tutto distruggesse».

E, per quanto possa apparire incredibile, di fronte all’evidenza di un omicidio reale e non più soltanto inventato da uno scrittore, anche allora la società del tempo si divise, con la solita contrapposizione tra difensori del rinnovamento e reazionari: molti condannarono il romanzo e il suo autore come una manifestazione di inaccettabile conservatorismo e solo pochissimi cercarono di motivare un parere più favorevole.

Tra questi pochissimi ce ne fu uno che lodò Dostoevskij per la sua capacità di descrivere la «gioventù oziosa e deficiente» che, invece di studiare e lavorare, sognava la rivoluzione. La reazione di Dostoevskij è sorprendente: invece di restare chiuso in questa contrapposizione di principi ideali che allora come oggi non porta da nessuna parte, invece di ringraziare l’isolato sostenitore, ne contesta radicalmente l’argomentazione. Ricordando di essere stato lui stesso un rivoluzionario o per lo meno di essere stato condannato nel 1849, proprio per questa accusa, alla pena di morte (poi commutata negli anni di lavori forzati che avrebbe passato in Siberia), rimprovera al suo estimatore di non aver capito nulla di quello che sta succedendo e gli indica invece la vera origine di azioni che sono certo dei crimini, ma non sono altrettanto certamente il frutto di poca voglia di lavorare e di studiare.

Innanzitutto gli fa notare che lui stesso era stato mandato al patibolo nonostante tutti i suoi studi, e poi si apre a una confessione che rende improponibile ogni discorso astrattamente conservatore: «Nečaev, probabilmente, non lo sarei mai potuto diventare, ma un nečaeviano, non garantisco, forse lo sarei stato… nei giorni della mia giovinezza». Dopo di che cerca ancora una volta di chiarire il vero scopo del suo romanzo, uno scopo che è tutt’altro che politico: «Ripeto che nel mio romanzo I demoni, io ho tentato di rappresentare i molteplici e svariati motivi per i quali anche le persone più pure di cuore e più ingenue possono essere spinte a commettere un delitto tanto mostruoso. L’orribile è appunto che da noi si possa compiere l’atto più vile e abominevole, talvolta senza essere per nulla un mascalzone! Del resto non è soltanto da noi, ma in tutto il mondo che avviene così, sempre, dal principio dei secoli, nelle epoche di transizione, nelle epoche di sconvolgimento della vita umana, di dubbi e di negazioni, di scetticismo e di incertezza nelle convinzioni sociali fondamentali (…) Una volta ripudiato Cristo, l’intelletto umano può giungere a risultati stupefacenti».

Ma in questo modo, identificando le dimensioni esatte della crisi («Una volta ripudiato Cristo, l’intelletto umano può giungere a risultati stupefacenti») Dostoevskij ci dice anche come fosse stato possibile per lui, vecchio rivoluzionario, uscire da questa crisi, offrendoci con l’evocazione di Cristo qualche cosa che ogni volta ci sorprende, ponendoci di fronte a una novità che bisogna però ben intendere se non si vuole ridurre la sua posizione a un discorso politico come tanti altri, riducendo così lo scrittore a un banale conservatore e perdendo tutta la ricchezza dei suoi romanzi.

Come il vecchio estimatore di Dostoevskij, che lo aveva lodato credendo che fosse tornato nel campo dei reazionari, sbaglieremmo anche noi se credessimo che in questo modo Dostoevskij cercasse di recuperare una morale tradizionale, dove la religione diventava la garante dell’ordine costituito: l’essenza del suo fascino, la sorpresa del suo mondo sta nel fatto che il bene ci può venire incontro persino attraverso una prostituta, si può incontrare la misericordia là dove il perdono sembra impossibile e trovare il bene persino in coloro che vorrebbero distruggere ogni pietà.

Dobbiamo cercare di capire la novità di questo Cristo che non può essere ridotto a una morale, a un’idea, neppure alla più alta delle verità se questa stessa verità è solo un’idea. Anzi persino tutta la morale cristiana, per Dostoevskij, può diventare una forma di ateismo, quando si riduce a una serie di norme e di idee; come ci si chiede nell’Adolescente: «Cos’è il socialismo ateo?», cosa sono le cosiddette «idee ginevrine»? Sono le idee di Cristo, le virtù cristiane «senza Cristo». Così, per Dostoevskij, il male di cui il suo mondo sembra non potersi liberare, il male che viene descritto nel sogno di Raskol’nikov come una malattia, come una pandemia che non ha ancora smesso di diffondersi, è proprio questa riduzione di tutte le aspirazioni più belle e più giuste dell’umanità a una pura idea.

E allora, lasciandoci affascinare ancora oggi da Dostoevskij, se l’uomo si può aspettare un mondo migliore, dominato non dalla «discordia», dalla «disarmonia» e dalla «lotta», ma dall’«armonia», dalla «serenità» e alla fine anche da ideali degni dell’uomo, la realizzazione di questo mondo va cercata non attraverso la contrapposizione e lo scontro delle idee astratte, e neppure attraverso l’affermazione di una nuova e più perfetta idea morale, ma nella presenza di una realtà diversa. Come leggiamo in uno degli appunti preparatori ai Demoni: «Molti pensano che sia sufficiente credere nella morale di Cristo, per essere cristiano. Non la morale di Cristo, né l’insegnamento di Cristo salveranno il mondo, ma precisamente la fede in ciò, che il Verbo si è fatto carne».

Il problema, la chiave di volta, nella storia personale e creativa di Dostoevskij, è tutto nella riscoperta di questa dimensione personale, reale e non vagamente ideale, di Cristo.

Cristo è la verità incarnata, una persona, e se la bellezza salverà il mondo, come si dice nell’Idiota e in tanti altri testi di Dostoevskij, non è perché Cristo sia una bella idea, ma perché è una persona affascinante e irriducibile a ogni idea e, per ciò stesso, capace di liberarci e di renderci, come lui, irriducibili a ogni cosa creata o inventata dall’uomo: se la bellezza salva il mondo non è perché è un’idea che oltre a essere vera e buona è anche bella, ma perché è una realtà irriducibile a ogni idea: in fondo anche i nichilisti amano la bellezza, diceva Dostoevskij, e aggiungeva che nel cuore dello stesso uomo possono abitare contemporaneamente sia l’ideale della bellezza della Madonna sia quello della bellezza di Sodoma. Se Dostoevskij riuscì a superare questa ambiguità della bellezza non lo fece affiancandole, per purificarla, un’altra idea, quale potrebbe essere appunto quella del bene; tant’è vero che anche l’idea del bene è ambigua e fragile, come Dostoevskij ripete più volte nei suoi appunti: «Ma come si può infondere l’amore per tutta l’umanità come per una sola persona? Per calcolo, per vantaggio? Strano. Perché devo amare l’umanità? E se poi mi si presenta improvvisamente un’altra supposizione? Falsa, diranno. Che ve ne importa, dico io: lo so da me che è falsa, perché il falso è dovunque, ma per il momento io posso mostrarmi molto ma molto originale, per amore della mia personalità, per gioco, obbedendo ai sentimenti individuali (…) Per ora dirò solo che l’idea dell’amore per l’umanità è una delle più incomprensibili per l’uomo in quanto idea (…) Una delle idee più incomprensibili per l’uomo in quanto idea; essa apparve solo una volta in forma di Dio incarnato».

In quanto idea, Cristo resterebbe una delle cose «più incomprensibili» per l’umanità, non ci farebbe uscire dalle contraddizioni, non ci salverebbe dai nostri limiti e, in ultima analisi, da quello che è l’ultimo limite umano, la contraddizione ultima, cioè la morte; ma in Dostoevskij funziona qualcosa che ci fa uscire dalla contrapposizione tra fede e ragione, rivoluzione e conservazione, e ciascuno aggiunga quello che più lo scandalizza di questo nostro mondo: sete di infinito e finitezza, libertà e necessità, autonomia e legge e via dicendo.

Una logica simile agisce nei Fratelli Karamazov, vuoi nella Leggenda del Grande Inquisitore (dove l’opposizione tra la parola idolatrica dell’Inquisitore e il silenzio del Cristo viene superata, non con la vittoria dell’una o dell’altro, ma nel bacio con il quale la Vita vivente ha la meglio sui discorsi dell’Inquisitore e così, nel suo radicale e pieno silenzio, può essere veramente la Parola in cui tutto è stato creato e tutto consiste), vuoi nella scena della confessione di Smerdjakov al fratello Ivan, teorico del tutto è permesso e quindi della negazione radicale della legge. Non è un caso che sia proprio in questa scena che noi veniamo a sapere come sono andate veramente le cose in merito all’omicidio di Fëdor Karamazov, commesso proprio da Smerdjakov, suo figlio illegittimo. In questa scena, venendo alla luce cosa è successo in realtà, si ha evidentemente la vittoria della verità, ma non della legge o di una morale legalistica, tant’è che questa vittoria non viene ottenuta attraverso il processo giudiziario, che arriva a tutt’altri risultati (finendo col condannare un innocente); se alla fine, invece, per noi lettori si ha comunque la vittoria della verità, non lo si deve alla legge, ma piuttosto a un sussulto di quella libertà che (come era accaduto con Raskol’nikov) gli uomini non riescono a scrollarsi di dosso e funziona anche come rimorso.

E però, in questa sorpresa che non smette di accompagnarci, la chiave di questa confessione non è neppure semplicemente nel rimorso, nella ricerca di qualche riparazione della legge violata, ma in quel libro che Smerdjakov tiene in mano quando confessa a Ivan il suo delitto: è una raccolta delle Omelie di sant’Isacco di Ninive, cioè uno dei padri della Chiesa che maggiormente ha insistito sulla centralità e sulla forza della misericordia, così che ciò davanti a cui la verità può venire alla luce, ciò da cui l’uomo può attendere un giudizio sui suoi atti non è né l’indifferenza alla legge né la condanna in nome della legge, ma esattamente la misericordia, l’amore infinito di Dio e di «un cuore che arde per tutta la creazione», come diceva appunto sant’Isacco.

Sta poi alla libertà dell’uomo, cioè al suo cuore e alla sua ragione, inseparabili, accogliere o meno questa misericordia e lasciarla agire.

di Adriano Dell’Asta