· Città del Vaticano ·

Mondi scomparsi
La comunità sefardita di Rodi travolta dalla Shoah

Voce sottile

Le colonne del tempio di Apollo a Rodi
26 gennaio 2021

«La notte a Rodi aveva un odore speciale». Era il profumo dell’isola delle rose, della vita «straordinariamente felice» sperimentata fino ai primi anni Quaranta del xx secolo dalla piccola comunità sefardita che popolava la juderia, il quartiere ebraico della città vecchia.

Tra i suoi stretti vicoli si mormorava un dialetto che mescolava le parole degli antenati spagnoli con gli accenti inconfondibili della lingua sacra, il poderoso scrigno in cui gli ebrei custodiscono la memoria e l’attesa, la legge e il desiderio di Dio.

Una fede su cui s’interroga il protagonista della storia, Solly, prima commesso di libreria, poi — allo scoccare delle leggi razziali in quel lembo greco del Mediterraneo che s’affaccia sulla costa turca ma che dal 1912 al 1945 appartenne all’Italia — maestro di scuola per i bambini della sua gente, esclusi dalle classi elementari di regime: «Dopo tutti i nostri discorsi, ho riflettuto molto su cosa significa avere fede per me. Ho concluso che significa questo: percepire un senso di verità al pensiero che ogni cosa faccia parte di un disegno più grande. Non so spiegarlo, ma credo abbia a che fare con la mia famiglia, con mio padre e mia madre, che vivono immersi in questa cosa qui. La nostra fede ci è stata trasmessa insieme al latte materno e alle parole dei nostri genitori e nonni che sin da bambini ascoltiamo distrattamente. Ma la parola “fede” è approssimativa: presuppone un’azione, un atto, mentre invece secondo me è una cosa che viene spontanea, come respirare».

Ciononostante, il respiro di Solly si fa più affannoso quando è costretto a subire le umiliazioni dei fascisti, o più agitato quando passeggia con Rachel, la ragazza di cui si è innamorato durante una cena pasquale e che lui sogna di raggiungere in Francia dopo la sua frettolosa partenza. E si placa solo quando gli arrivano, sempre più rare, le sue lettere.

Intanto tutti aspettano la fine della guerra, l’arrivo degli alleati, e invece saranno i tedeschi, dopo l’8 settembre, a prendere il controllo dell’isola disarmando gli italiani a tradimento e chiudendo in un cerchio sempre più stretto la comunità ebraica, che andrà all’appuntamento con la deportazione — una delle ultime del nazismo — quasi stupefatta che tutto quel male potesse accanirsi sulla sua pacifica e nascosta resistenza.

A Solly, uno dei pochi ebrei di Rodi sopravvissuti ad Auschwitz, tocca il destino di portare con sé a Roma la memoria della sua gente con la sua “voce sottile” e deporla, come un seme destinato a fiorire più tardi, nella curiosità e nella fantasia di suo nipote, Marco Di Porto. Lo scrittore ne ha maturato un romanzo (Una voce sottile, Firenze, Giuntina, 2020, pagine 160, euro 15) scabro ed essenziale, cronache di poveri uomini che ebbero la grazia di benedire anche nell’imminenza della fine: «Se quello era il tempo dato loro in sorte — dice la voce narrante — occorreva ringraziare il Santo, Benedetto il Suo Nome, per il solo fatto di averla, quella vita, che consentiva di pregare l’Onnipotente che aveva insufflato il soffio di vita in ognuno. E occorreva ringraziare e aspettare che l’Onnipotente concedesse tempi migliori, secondo i suoi piani imperscrutabili. E avevano ancora i frutti della terra, e l’aria tersa, e il sole purificatore, e l’acqua delle fonti, e un’isola che continuava a essere bellissima, incurante delle leggi e della guerra. E il miracolo si palesava ogni mattina agli occhi di tutti, eppure molti non riuscivano a vederlo. E si santificava ogni giorno di quella vita, nonostante lo smarrimento e il senso di impotenza».

Ed è così che la “voce sottile” di Solly — quasi un silenzio — ha trovato eco nello stile essenzialissimo di un racconto che fa brillare una luce chiara nel fumo denso della tragedia. Leggendolo vengono in mente le parole del Diario di Etty Hillesum, uno dei capolavori della letteratura della Shoah: «È così che vorrei scrivere, con molto spazio intorno a poche parole. Non vorrei scrivere altro che poche parole incastonate in un gran silenzio. In questo modo le parole non dovrebbero servire ad altro che a dare al silenzio la sua forma e i suoi confini».

di Giovanni Ricciardi