· Città del Vaticano ·

«Ora che eravamo libere» di Henriette Roosenburg

L’Odissea di Zip

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26 gennaio 2021

«Davanti a noi si stendeva un dolce paesaggio fatto di campi di grano e di segale che ondeggiavano maturi nella brezza, punteggiato di piccole fattorie discoste dalla strada e sormontato dall’ampio e soleggiato cielo di maggio nel quale una miriade di nuvolette salpava allegramente verso il nulla... E fu allora che ci sentimmo travolgere da un poderoso senso di libertà... Al cospetto della vastità di quel panorama luminoso e quieto, l’immensità della libertà ci investì come un’onda sulla spiaggia, inghiottendoci, togliendoci il respiro, facendoci barcollare sulle gambe stanche. Avevamo tutti una gran voglia di cantare, piangere, urlare e ridere, tutto in una volta, ma restammo a lungo immobili e in silenzio».

È difficile immaginare cosa passi nella mente di chi, dopo essere stato per anni solo un numero, segregato e violato nel fisico e nell’animo, si scopre di nuovo riconosciuto come essere umano e improvvisamente libero. Ma le parole di Henriette Roosemburg, olandese, giovane staffetta partigiana, catturata e imprigionata dai nazisti, sono riuscite a descrivere quell’attimo di ritrovata consapevolezza con commovente intensità. Parole che finalmente possiamo leggere in Ora che eravamo libere (Roma, Fazi, 2021, pagine 276, euro 18, traduzione di Arianna Pelagalli), un memoire che Roosenburg pubblicò nel 1957, con grande successo in America, nel quale racconta, oltre al lungo e travagliato viaggio verso casa, anche la sorte di quanti finivano nel girone infernale più profondo tra i detenuti nazisti, gli NN, Nacht und Nebel (notte e nebbia). Erano quelli senza alcun diritto, nemmeno il “sollievo” di una morte rapida dopo una condanna alla pena capitale: avversari politici, attivisti, fiancheggiatori della resistenza. Nei lager, oltre ad ebrei, zingari e omosessuali, c’erano anche loro.

Nata nel 1916, Henriette ha appena iniziato a frequentare l’università quando comincia a fare la staffetta partigiana, impegnandosi anche nella stampa clandestina. Nel 1944 viene catturata, imprigionata in cinque carceri diverse prima di finire a Waldheim, in Sassonia, dopo una condanna a morte. Una condanna che per lei, come per molti altri prigionieri, non viene eseguita subito: talvolta i nazisti, che pure non esitano a giustiziare i prigionieri politici anche senza processo, preferiscono infliggere loro indicibili brutalità, a cui molti non sopravvivevano. Le vittime spesso «morivano semplicemente perché la loro mente aveva gettato la spugna e rinunciato a combattere», annota l’autrice, aggiungendo però che «la gente può restare aggrappata alla vita anche nelle circostanze più atroci purché trovi qualcosa, al di fuori di sé stessa, su cui concentrarsi, basta anche un misero pezzetto di stoffa». Ed è ciò che fa lei.

Una situazione terribile che per Zip — il soprannome di Henriette per il suo continuo andirivieni tra i vari gruppi partigiani — termina inaspettatamente il 6 maggio dell’anno successivo, quando viene liberata assieme agli altri prigionieri dai soldati russi. Ed è da qui che prende avvio il racconto della ritrovata libertà e del lento ritorno in Olanda. Un viaggio che la protagonista affronta insieme a tre connazionali, due ragazze e un giovane marinaio, con i quali deve trovare il modo di percorrere i 650 chilometri che li separano da casa.

Quella raccontata da Roosemburg in Ora che eravamo libere con un linguaggio che non indulge a inutili divagazioni, guidato com’è dall’urgenza di testimoniare, è una vera e propria odissea: cinque settimane attraverso la Germania sprofondata nel caos di un conflitto devastante, tra nazisti in fuga, ex prigionieri sbandati, soldati alleati che presidiano il territorio, tedeschi diffidenti, impauriti dalle vendette dei vincitori e talora ancora ostili. A piedi, in barca sul fiume Elba, poi su carretti improvvisati, camion, infine anche su un aereo, tra campi profughi e improvvisati comandi militari, per i quattro amici ogni giorno è una sfida da superare ricorrendo a ogni risorsa e astuzia.

Durante il viaggio s’imbattono negli istinti umani più bassi, scoprendo però anche squarci di dimenticata umanità attraverso inattesi gesti di gentilezza, di accoglienza e di generosa condivisione. Gesti grazie ai quali ritrovano fiducia negli uomini. Cosa peraltro non difficile per chi come loro, nonostante le violenze e le umiliazioni subite, aveva cercato di resistere all’abbrutimento. E che ci fossero riusciti lo avevano scoperto subito dopo la liberazione, quando, ancora nella prigione, in attesa di capire cosa fare e dove andare, s’imbatterono in una delle guardiane più cattive, chiamata la “gorilla”. «Avevo giurato e spergiurato che l’avrei fatta fuori se mai ne avessi avuto l’occasione», confessa Henriette. «Non potei farlo perché qualcosa dentro di me, nel calderone degli innumerevoli imponderabili che inducono una persona ad agire o a non agire in una determinata situazione, mi fece capire chiaramente che se l’avessi uccisa mi sarei inevitabilmente abbassata allo stesso livello delle persone che più detestavo al mondo».

Una lezione comune a tanti sopravvissuti, che nel vortice della più cieca barbarie decisero di restare umani.

di Gaetano Vallini