· Città del Vaticano ·

«Fratelli tutti» - Per una lettura dell’enciclica di Papa Francesco

La missione in periferia

 La missione in periferia  QUO-019
25 gennaio 2021

La Fratelli tutti (Ft) propone un modello di missione. Papa Francesco lo lascia intuire tra le righe del documento. Non è difficile cogliere una continuità tra la «Chiesa in uscita» di Evangelii gaudium e la «fraternità aperta» (Ft 1) dell’ultima enciclica sociale. C’è in comune l’idea di una Chiesa che per sua natura è missionaria, è in ascolto e aperta al mondo. Infatti, la Chiesa o è missionaria o non è. Tertium non datur.

Forse è giunto il momento di liberare la Chiesa dalla preoccupazione di un attivismo «a domicilio», intento a raggiungere tutti secondo il sistema del proselitismo. Così essa appare malata di protagonismo smisurato, tutta intenta ad arrivare dove non era mai arrivata, abile ad «agitarsi» nel raggiungere ogni luogo e persona, capace di affannarsi grazie a strategie di marketing convincenti. Occorre, invece, indossare gli occhi di chi riconosce l’azione dello Spirito Santo già presente nella vita delle persone. Dio agisce ed è già là, oltre i confini assegnati dagli steccati ecclesiastici e oltre i mal di pancia dei controllori della fede. La bellezza della testimonianza cristiana si rivela già incarnata nell’esistenza di cristiani che sono segni di speranza per il proprio tempo. Nella Fratelli tutti la fraternità è esperienza umana e cristiana. Rivela. Dà voce alla speranza. Il Vangelo percorre strade inattese. Lo trovi nel vissuto di chi meno ti aspetti. Spesso preferisce i sentieri collinari di esistenze semplici alle autostrade dei Vip. C’è solo da aprire gli occhi. Per questo, Papa Francesco al n. 54 di Ft tesse l’elogio delle persone ordinarie: medici, infermieri e infermiere, farmacisti, addetti ai supermercati, personale delle pulizie, badanti... Come a dire, c’è una testimonianza (o santità) della porta accanto che evangelizza anche in tempo di pandemia. Il vangelo è già contagioso di suo e, a differenza del covid, lo vedi con chiarezza, profuma di umanità, valorizza il gusto e l’olfatto di chi lo ricerca. Non servono studi teologici particolari o lauree speciali per riconoscerlo presente. L’invenzione del quotidiano è quanto di più bello ci possa convertire. Così il cristianesimo si propaga per attrazione. Abita i cuori, anche quelli di chi non lo dichiara ma esprime una rettitudine di tutto rispetto. Non si può dimenticare, infatti, che l’azione dello Spirito di Dio arriva oltre l’impegno della Chiesa e, d’altra parte, «il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace» (Ft 74).

Tra le tante riflessioni che l’enciclica offre, possiamo porre l’attenzione su due questioni: un contenuto antropologico e un metodo di azione.

L’umanità ferita e curata


La prima questione è antropologica: Ft dichiara che non esiste umanità che non sia ferita, dal punto di vista della fraternità e suggerisce una «cura» ad hoc. I capitoli quattro, cinque e sei presentano tre malattie del nostro tempo: i particolarismi, i populismi e i fondamentalismi. A ben pensarci sono le forme più radicali di rifiuto della dimensione missionaria, perché rappresentano chiusure drammatiche all’interno di visioni dell’uomo di corto respiro. La «fraternità aperta» è contraddetta dai localismi che tendono a presentare un «mondo chiuso» (capitolo primo) in frontiere che le cartine geografiche non contemplano. L’innalzamento di muri nella stagione della globalizzazione è l’immagine che più di tutte racchiude l’incapacità di un universalismo autentico secondo il quale ogni uomo è fratello. I dibattiti sulle migrazioni sono la spia di una crisi antropologica, prima ancora che di un malessere sociale. Allo stesso modo i populismi si caratterizzano per la scaltrezza con cui strumentalizzano la cultura del popolo per chiuderla in schemi identitari, mettendo in discussione la possibilità di una democrazia. Ci si serve del popolo per interessi di potere, invece di mettersi al suo servizio. Infine, la fraternità è ferita dal fondamentalismo, che non sa assumere il valore del dialogo. Copre il volto del fratello per ridurlo alle idee di cui è portatore. Ne scaturisce la furia violenta iconoclasta nei confronti del diverso, del volto dell’altro percepito come minaccia. D’altra parte, diventa insufficiente anche l’atteggiamento di chi sottovaluta i conflitti che possono nascere dalle differenze. I veri leader, annota Francesco, non si pensano come intermediari, ma come mediatori. «Gli intermediari cercano di fare sconti a tutte le parti, al fine di ottenere un guadagno per sé. Il mediatore, invece, è colui che non trattiene nulla per sé, ma si spende generosamente, fino a consumarsi, sapendo che l’unico guadagno è quello della pace» (Ft 284).

Di fronte a queste malattie, che segnalano una fraternità ferita, Ft offre una cura a base di gratuità, tenerezza e incontro. La gratuità è dimensione antropologica che consente di «fare alcune cose per il solo fatto che di per sé sono buone, senza sperare di ricavarne alcun risultato, senza aspettarsi immediatamente qualcosa in cambio» (Ft 139). Si accoglie l’altro in quanto altro, non perché utile. Questo atteggiamento di coscienza fa crescere la propria umanità. La modella come testimonianza. Diventa così sempre più concreta «la consapevolezza che oggi o ci salviamo tutti o nessuno si salva» (Ft 137). La tenerezza, invece, «è l’amore che si fa vicino e concreto. È un movimento che parte dal cuore e arriva agli occhi, alle orecchie, alle mani» (n. 194). Spesso confusa con una regola di galateo o di savoir faire sociale, la tenerezza è la forza interiore che ha il coraggio di apparire in gesti concreti di servizio. Se infatti i poveri «hanno diritto di prenderci l’anima e il cuore» (Ft 194), la fraternità si incarna nelle membra dell’uomo che si lascia conquistare dalla presenza del fratello. In quest’ottica appare quanto mai pertinente la meditazione sulla parabola del buon Samaritano nel secondo capitolo dell’enciclica: la tenerezza è visibile non solo nei gesti di cura nei confronti del povero abbandonato sul ciglio della strada, ma nel fatto che ha donato del tempo.

L’ultima cura è data dall’incontro. Anche il dialogo è a prova di concretezza, vive del corpo a corpo con la presenza dell’altro. Non coincide con la compulsività sui social, tipica di un atteggiamento malato e incapace di spazi di silenzio, in preda alla volontà di rispondere colpo su colpo a qualsiasi avversario o contestatore della fede cristiana. Il dialogo non intende neppure imporre il proprio modo di pensare, finendo per immischiarsi in trattative infinite per portare l’altro alla propria posizione. Serve invece una nuova cultura dell’incontro perché da tutti «si può imparare qualcosa, nessuno è inutile, nessuno è superfluo» (Ft 215). A questo proposito Francesco rilancia l’immagine del poliedro, che rappresenta una società dove le differenze convivono, si integrano e si illuminano a vicenda. Al contrario, la sfera dice l’equidistanza dal centro, la tentazione di tenere tutto in una cornice precostituita e preconfezionata a tavolino. Ciò comporta la concreta inclusione delle periferie, che presentano sempre un altro punto di vista, un diverso modo di affrontare le questioni. Sono così messe in discussione le logiche escludenti tipiche dei centri di potere. «Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”» (Ft 198).

Le periferie al cuore


L’enciclica promuove il metodo missionario che vuole innanzi tutto integrare le periferie. La fraternità non corrisponde a un indistinto universalistico amore di tutti che inevitabilmente finisce per non rivolgersi verso nessuno. Quante volte il cristianesimo si è anestetizzato dentro a una fraternità generica! Nel metodo di integrare chi è escluso l’enciclica indica il punto di partenza. «Ci sono periferie che si trovano vicino a noi, nel centro di una città, o nella propria famiglia. C’è anche un aspetto dell’apertura universale dell’amore che non è geografico ma esistenziale. È la capacità quotidiana di allargare la mia cerchia, di arrivare a quelli che spontaneamente non sento parte del mio mondo di interessi, benché siano vicino a me. D’altra parte, ogni fratello o sorella sofferente, abbandonato o ignorato dalla mia società è un forestiero esistenziale, anche se è nato nello stesso Paese. Può essere un cittadino con tutte le carte in regola, però lo fanno sentire come uno straniero nella propria terra. Il razzismo è un virus che muta facilmente e invece di sparire si nasconde, ma è sempre in agguato» (Ft 97). Le periferie esistenziali rivelano spesso che ci sono forme subdole di rifiuto dell’altro e, proprio per questo, ancor più malevole. L’allargamento della cerchia di cui parla Francesco comincia dal povero, da chi è nel bisogno, da chi è scartato, da chi è disoccupato, da chi è emarginato...

Iniziare dalle periferie ha due pregi in ordine all’evangelizzazione. Da una parte, infatti, mostra la gratuità e il disinteresse per chi non ha nulla da ricambiare. Richiede un intervento motivato dal riconoscimento della comune umanità. Dall’altra parte, il volto del povero esprime la concretezza dell’amore fraterno. Anche un cuore grande non può amare tutti in modo generico. Su questo tema chi non ricorda la limpida provocazione di don Lorenzo Milani? In una sua lettera a Luciano Ichino scriveva: «Il sacerdote è padre universale? Se così fosse mi spreterei subito. E se avessi scritto un libro con cuore di padre universale non v’avrei commosso. V’ho commosso e convinto solo perché vi siete accorti che amavo alcune centinaia di creature, ma che le amavo con cuore singolare e non universale». Il cuore singolare sa che l’amore per il prossimo prende il via dal volto concreto del fratello o della sorella. La periferia è il banco di prova della fraternità e della missionarietà evangelica della Chiesa.

In conclusione, la Chiesa è in missione quando si mostra fedele al Vangelo: «Vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, dalle sue sacrestie, per accompagnare la vita, sostenere la speranza, essere segno di unità [...] per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione» (Ft 276). Risulta ancora più comprensibile la citazione iniziale dell’enciclica, quando si parla di fraternità «senza frontiere». L’episodio di Francesco d’Assisi che incontra il Sultano Malik-al-Kamil in Egitto è una forma di missione. Qualcuno ha inteso maldestramente derubricare il «dialogo interreligioso» come esperienza per appassionati o addetti ai lavori, preoccupati di una pacifica convivenza tra i popoli. In realtà, il dialogo si rivela come piena e feconda evangelizzazione. Attraverso di esso, infatti, san Francesco «non faceva la guerra dialettica imponendo dottrine, ma comunicava l’amore di Dio» (Ft 4). La missione passa da questa logica. Elementare fraternità, altissima teologia.

di Bruno Bignami