· Città del Vaticano ·

Ricordata in un convegno la figura del pastore e teologo valdese Valdo Vinay

Non si può predicare
senza amare il popolo
che ti ascolta

 Non si può predicare senza amare il popolo che ti ascolta  QUO-018
23 gennaio 2021

Figura eminente del protestantesimo italiano, Valdo Vinay, la cui vita ha attraversato praticamente tutto il secolo passato, è stato ricordato nei giorni scorsi, a ridosso della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, in un convegno promosso dalla Facoltà teologica valdese in occasione del trentesimo anniversario della sua scomparsa. All’incontro, introdotto dalla moderatora della Tavola valdese Alessandra Trotta e dalla nipote Manuela Vinay, hanno partecipato tra gli altri monsignor Ambrogio Spreafico, vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino, il professor Paolo Ricca e Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio.

Valdo Vinay, nato nel 1906, è stato teologo, professore, ma soprattutto infaticabile pastore, dedicando la gran parte della sua vita all’annuncio della Parola, anche fuori dei confini della confessione valdese. D’altronde fin dall’inizio della pratica pastorale la sua tendenza era stata quella, oltre gli steccati, «di un cristianesimo aconfessionale orientato ai problemi pratici della vita individuale e sociale, con intenzioni culturali». Da giovane fu tra i protagonisti di «Gioventù cristiana», rivista promossa da giovani intellettuali protestanti fortemente ispirati dal pensiero e dagli scritti di Karl Barth. Quella di Vinay per Barth fu un’autentica passione: nei primi anni Trenta aveva frequentato tutti i suoi seminari all’università di Bonn, e alla teologia cristologica di Karl Barth aveva dedicato la tesi di licenza. Negli anni successivi «Gioventù cristiana» diverrà anche autorevole voce di dissidenza e opposizione al fascismo.

Il bagaglio barthiano accompagnò Vinay dieci anni più tardi nell’assunzione della cattedra di Storia della teologia alla Facoltà valdese di Roma; impegno accademico che comunque andava sempre in parallelo all’attività pastorale e che, subito dopo la guerra, svolse intensamente in Ciociaria e nel Basso Lazio. Molti degli evangelici di quelle terre furono costretti, in quegli anni duri, all’emigrazione al di là delle Alpi, e Vinay si occupò appassionatamente delle loro condizioni sociali, favorendone la riambientazione e visitandoli spesso oltre confine. Gli anni successivi, dai Cinquanta fino al pensionamento nel 1976, furono senz’altro i più costruttivi e creativi della sua vita, tanto come teologo che come scrittore, professore universitario, pastore, predicatore e, non ultimo, come principale divulgatore del pensiero di Karl Barth.

Avendo seguito come giornalista accreditato il concilio Vaticano ii , ne colse immediatamente la grande portata innovativa sul piano del dialogo ecumenico. Intuizione che, com’era nel suo stile, seppe immediatamente tradurre in esperienza pratica di relazione e confronto. È del 1973 infatti il suo primo incontro con i giovani della Comunità di Sant’ Egidio, come ha ricordato nel suo intervento Andrea Riccardi: «La Comunità di Sant’ Egidio, agli inizi, ha avuto dei maestri, attraverso degli incontri: uno di questi, e di certo non il minore, Valdo Vinay. Divenne un nostro amico nella condivisione della Parola: ci regalò una copia del suo libro Riforma protestante con questa dedica: “Ai giovani amici della Comunità di Sant’Egidio, i quali mi chiedono ancora di spiegare loro la Parola di Dio. E qui l’amicizia non finisce mai”». Ugualmente, negli stessi anni inizierà a insegnare anche nell’università benedettina di Roma, il Pontificio ateneo Sant’Anselmo. È grazie al combinato disposto del suo spirito, insieme libero e unitario, e dell’ecumenismo postconciliare, che si avvia una consapevole trasformazione di ruolo della comunità protestante italiana: non più minoranza resistente all’egemonia della Chiesa cattolica, ma lievito per la crescita spirituale di tutti i battezzati in Cristo. In effetti Vinay ha sempre compreso il termine “evangelico” preliminarmente come un aggettivo, e solo scrivendo di storia come un sostantivo identitario. Diceva in un incontro del 1975: «Nessuno esalti la propria tradizione, divenendone servo. Perché tutto è vostro: Giovanni Crisostomo e Giovanni Damasceno, Aurelio Agostino e Anselmo di Canterbury, Tommaso d’Aquino, Francesco d’Assisi e Valdo, Lutero, Calvino e il cardinale Gaspare Contarini, Blaise Pascal e Karl Barth. Potete rimeditare con gratitudine il pensiero di questi dottori e riformatori della Chiesa, potete servirvi liberamente dei loro scritti e del loro esempio. Ma a una condizione: che voi non diveniate agostiniani o tomisti, valdesi o francescani, luterani o calvinisti o barthiani. L’apostolo si esprime chiaramente: a condizione che voi siate di Cristo. Questa vostra appartenenza totale a Cristo vi renderà veramente liberi, signori di tutte le cose, anche delle tradizioni, non strumenti e servi di esse».

La cifra che definisce l’intera vita di Valdo Vinay è dunque il Vangelo, quel Vangelo che produce frutti solo se è proclamato, ascoltato, letto, sminuzzato, metabolizzato, non come esercizio intellettuale ma insieme ai fratelli, in un regime di amore. A cominciare dai pastori, perché, come amava dire e praticare, «non si può predicare senza amare il popolo che ti ascolta».

di Roberto Cetera