· Città del Vaticano ·

La riedizione del volume del gesuita John Courtney Murray

Noi crediamo
in queste verità

John Fitzerald Kennedy durante il discorso di insediamento il 20 gennaio 1961
20 gennaio 2021

Nel 1960, accompagnando l’ascesa alla Presidenza del primo cattolico, John Kennedy, sospetto in vasti settori dell’opinione pubblica protestante perché la Chiesa cattolica sembrava limitarne l’autonomia, il padre gesuita John Courtney Murray pubblicò We Hold These Truths – Catholic Reflections on the American Proposition, la raccolta dei propri scritti. In essa, a partire dal diritto costituzionale americano, proponeva di assumere pienamente la libertà religiosa come principio da valorizzare e non come male da tollerare. Kennedy si ispirò a Murray anche in un celebre discorso a Houston di quello stesso anno che ebbe particolare risonanza politica ed ecclesiale, anche ad anni di distanza. La prima apparizione italiana del testo (Morcelliana, 1965) intendeva accompagnare i lavori del concilio Vaticano II  ed in effetti ebbe un’influenza decisiva sulla Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae  anche grazie ai rapporti di lunga data dell’autore con Paolo VI . Oggi, in concomitanza con l’ascesa alla Presidenza di Joe Biden, secondo cattolico dopo Kennedy, vede la luce una nuova edizione (Brescia, Morcelliana 2021, pagine 324, euro 28), con una premessa e una nota biografica e bibliografica di Stefano Ceccanti, nella convinzione che alcune intuizioni di fondo del testo e della Dichiarazione  possano avere ancora un significato. Nella prima parte della premessa, Ceccanti analizza lo svolgimento del pensiero del gesuita, sempre ancorato a solide radici teologiche. Quindi, nella seconda parte, di cui qui pubblichiamo uno stralcio, illustra quali sono stati gli influssi del diritto costituzionale degli Stati Uniti sulla Dignitatis humanae.

Il proemio della Dignitatis humanae, pur con linguaggio ecclesiale, tematizza in chiave costituzionalistica il tema dell’immunità dalla coercizione, il ruolo limitato dello Stato e l’ampiezza del libero esercizio della libertà religiosa con un lessico evidentemente mutuato dal Primo emendamento della Costituzione americana e ammette esplicitamente in modo non consueto un certo grado di discontinuità rispetto alla dottrina precedente, «dalle quali trae nuovi elementi in costante armonia con quelli già posseduti». Queste affermazioni nel rapporto con lo Stato vengono bilanciate sul piano del rapporto tra la persona, la verità e la Chiesa «col dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo».

Anche il tema dei limiti che i pubblici poteri possono porre all’esercizio della libertà religiosa è impostato dal punto 7 in modo sintonico con l’impostazione americana: lo Stato non ha il monopolio del bene comune, i limiti che può porre sono fondati solo sull’“ordine pubblico”, nozione ben più limitativa, secondo canoni di necessità e di proporzionalità. Del resto né la politica né tanto meno lo Stato sono visti dallo specifico documento sui rapporti Chiesa-mondo, la Costituzione pastorale Gaudium et spes, nello specifico nei capitoli finali della Prima Parte e, quindi, nei paragrafi 74 e 75, come aventi un monopolio del bene comune. È però il numero 6 che ottiene puntualmente il capovolgimento della tesi leoniana.

Mentre il citato passaggio della Immortale Dei recitava: «Se la Chiesa giudica che non sia lecito concedere ai vari culti religiosi la stessa condizione giuridica che compete alla vera religione, pure non condanna quei governi che, per qualche grave situazione, mirando o ad ottenere un bene, o ad impedire un male, tollerino di fatto diversi culti nel loro Stato», ora il n. 6 della Dignitatis humanae afferma: «Se, considerate le circostanze peculiari dei popoli nell’ordinamento giuridico di una società viene attribuita ad un determinato gruppo religioso una speciale posizione civile, è necessario che nello stesso tempo a tutti i cittadini e a tutti i gruppi religiosi venga riconosciuto e sia rispettato il diritto alla libertà in materia religiosa».

La seconda parte della Dichiarazione si muove poi su un profilo più squisitamente teologico, anche ricorrendo al già richiamato argomento della zizzania, sia ripreso come citazione biblica sia in relazione all’Allocuzione di Pio xii del 1953.

Il tema costituzionale riemerge nella Conclusione elogiando genericamente alcuni testi costituzionali e facendo riferimento alla Dichiarazione Onu del 1948 attraverso una citazione della Pacem in terris di Giovanni xxiii del 1963 (paragrafo 75). Del resto quell’enciclica aveva già segnato varie aperture nella direzione poi percorsa compiutamente dalla Dignitatis humanae. Non solo per il tono più aperto sul tema specifico della libertà religiosa, ma perché, più in generale, com’è noto, essa tra i princìpi della dottrina sociale cristiana colloca non solo i classici verità, giustizia e amore, ma anche la libertà (si veda in particolare il par. 18).

Ovviamente tra le due parti del documento c’è un nesso logico: quale visione ecclesiologica consente di muoversi in un modo così aperto sul piano giuridico, dando rilevanza in modo induttivo ad un’esperienza storica, quella americana, in cui i cattolici erano minoranza? Perché è possibile trarre da un’esperienza di quel tipo, di dialogo tra varie minoranze religiose “nuovi elementi”, come recita il proemio, in grado di arricchire la dottrina? Lo stesso proemio non casualmente ripropone qui la formula già presente nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium (par. 8), ossia che la «vera religione… sussista nella Chiesa cattolica e apostolica». Notevoli dibattiti si sono svolti sull’uso del termine “sussiste” in luogo di altri più immediati sulla coincidenza della verità con quella proposta dalla Chiesa cattolica, ora accentuando ora riducendo l’impatto della novità della formula. Al netto di tali diversità interpretative, resta il fatto che il verbo sussistere intende esprimere una visione non esclusivista della verità. Si può quindi discutere se le formule della prima parte della Dichiarazione, più spostata sul concetto costituzionale di immunità dalla coercizione si coniughino più o meno felicemente con quelle teologiche della seconda, però il proemio invita a leggere insieme la valorizzazione della libertà nello Stato con una certa valorizzazione del pluralismo religioso e civile.

La possibile tensione tra le due parti esiste perché obiettivamente era più semplice costruire un ampio consenso sull’idea costituzionale dell’immunità dalla coercizione che non su un’impostazione teologica relativa alla positività della libertà religiosa in sé, visto che al di là della libertà la Chiesa cattolica ha comunque la convinzione di essere portatrice della verità, di avere comunque la percezione più adeguata della verità rispetto alle altre esperienze religiose.

Com’è noto, il consenso sulla prima parte, superando la tesi dello Stato cattolico, fu relativamente semplice perché all’impostazione costituzionale americana di Murray e Maritain, che consentiva di raccordarsi anche alla prima esperienza di un presidente americano cattolico, si accompagnava l’esperienza storica delle democrazie cristiane nei principali Paesi europei, che avevano dimostrato la fecondità concreta dell’incontro tra cristianesimo e democrazia e quella dei padri dell’Europa dell’Est, a cominciare dalla Polonia, per i quali era vitale difendere la forza sociale della Chiesa dall’invadenza degli Stati socialisti.

Era invece più difficile trovare formule chiare e condivise sulla seconda parte, perché il rifiuto dell’esclusivismo nel possesso della verità andava comunque conciliato con l’affermazione di un ruolo significativo della Chiesa. Lo dimostrano appunto le note tensioni nel dibattito interpretativo successivo sul verbo “sussistere” per comparazione all’accettazione pacifica dell’immunità dalla coercizione. Nessuno, se non piccole frange tradizionaliste, ha più riproposto modalità confessionaliste nel rapporto tra Stato e Chiese, ma tuttavia in nome del libero esercizio della libertà religiosa da parte della Chiesa cattolica si è spesso proposta una retorica antirelativista in nome di astratti principi non negoziabili a cui conformare la legislazione civile, retorica che più che anti-relativista era in realtà anti-pluralista. Rare sono, infatti, le posizioni relativiste nel dibattito pubblico, quelle per le quali le posizioni nella sostanza si equivalgono e l’ordinamento deve pertanto assumere la più netta e olimpica neutralità. La gran parte dei conflitti sono invece legati al pluralismo, alla presenza di varie linee di frattura rispetto alle quali i decisori politici possono e debbono trovare forme di sintesi.

Quali sono state pertanto in estrema sintesi le conseguenze pratiche di questa impostazione sul piano dell’evoluzione costituzionale comparata nelle democrazie consolidate ed in quelle affermatesi dopo il 1989?

Si è realizzata una doppia e reciproca apertura.

Per un verso, la spinta diretta della Dichiarazione ha condotto a smantellare le normative ispirate a residui confessionalisti (Concordato italiano del 1929 e spagnolo del 1953 in primis); per altro verso, l’effetto indiretto è stato quello di intaccare, a cominciare dalla Conferenza di Helsinki del 1975, le normative dei Paesi allora socialisti ispirate alla logica di una separazione ostile.

Persiste, invece, una sostanziale logica confessionalista nel mondo islamico, dove continua ad essere concepibile al massimo solo una limitata tolleranza religiosa.

Al di là di questa persistenza, alcune impostazioni interne alla Chiesa cattolica hanno cercato di neutralizzare la portata innovativa della Dichiarazione ritenendola sostanzialmente datata perché essa sarebbe servita sì sul momento a limitare le pretese antireligiose dei Paesi socialisti e a liquidare vecchi confessionalismi, ma si sarebbe poi rivelata debole rispetto alle nuove forme di liberalismo e di relativismo nei Paesi occidentali rispetto alle quali si sarebbe invece trattato ora di contrapporre l’oggettività della verità secondo la comprensione della Chiesa cattolica, come proposto ad esempio da Bruno Dufour in un importante saggio sull’autorevole rivista «Communio» del novembre-dicembre 1995, rileggendo in questa chiave il pontificato di Giovanni Paolo ii .

Ora, ciascun documento è anche figlio del suo tempo ed è ovvio che una Dichiarazione del genere, se fosse riscritta oggi, potrebbe probabilmente avere su alcuni punti diverse ed ulteriori sollecitazioni ed è peraltro evidente che la Chiesa cattolica non possa accettare passivamente qualsiasi evoluzione culturale. Tuttavia c’è da chiedersi: la valorizzazione del pluralismo che portava Murray ad intitolare il suo libro usando la parola verità al plurale, sulla scia della Dichiarazione di Indipendenza e l’ottimismo teologico che pervade l’inizio della Dignitatis humanae hanno un valore storicamente contingente o invece mantengono fermo il loro valore di stella fissa per la società e per la Chiesa? Rileggere Murray aiuta a convincersi di questa seconda opzione.

Senza Murray sarebbe stato impossibile superare il doppio standard a cui conduceva la tesi dello Stato cristiano (confessionalismo dove si era maggioritari e richiesta di libertà dove minoritari), rivendicata esplicitamente dal cardinale Ottaviani nel già citato discorso del 1953 («Ci si obietta: voi sostenete due criteri o norme d’azione diverse, secondo che vi fa comodo… Ebbene, appunto due pesi e due misure sono da usarsi: l’uno per la verità, l’altro per l’errore») e che esponeva Kennedy all’accusa di volere un’egemonia cattolica nel caso di vittoria e, quindi, sarebbe stato impossibile scrivere limpidamente nell’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco: «Come cristiani chiediamo che, nei Paesi in cui siamo minoranza, ci sia garantita la libertà, così come noi la favoriamo per quanti non sono cristiani là dove sono minoranza» (n. 279).

Chissà che le idee di Murray, nel momento in cui il cattolico Joe Biden si insedia alla Presidenza della più importante democrazia consolidata del mondo, non siano anche stavolta di ispirazione per accompagnare le evoluzioni della Chiesa cattolica, della società e della politica, negli Usa e altrove, dopo tante incomprensioni e rigidità del periodo precedente.

di Stefano Ceccanti