· Città del Vaticano ·

Nella chiesa di Sant’Eusebio, si festeggia sant’Antonio Abate

La preghiera
di piazza Vittorio

Mattei_16_x.jpg
16 gennaio 2021

I portici delle città sono un sicuro riparo dalla pioggia. D’inverno fanno comodo. Ci si infila là sotto e si aspetta che perlomeno si attenui l’intensità della precipitazione. Dal punto di vista pluviometrico, il vantaggio di Torino su Roma è di una cinquantina di millimetri annui. Eppure, coi suoi diciotto chilometri di portici, dei quali l’Urbe è quasi del tutto sprovvista, il capoluogo sabaudo è la seconda città più “riparata” d’Italia, dopo Bologna.

A partire dal 1870, insieme ai burocrati, ai militari e ai magistrati piemontesi incaricati di costruire la nuova capitale, alcune di quelle gallerie cominciarono ad insediarsi anche a Roma, e a incorniciare tra l’altro una porzione dell’Esquilino, dando corpo in tal modo, nell’ultimo ventennio del xix secolo — quando, tra bonifiche e sventramenti, si sognava più o meno improvvidamente di aggiustare l’incoerente assetto antico, medievale, rinascimentale e barocco della Città Eterna imprimendole un ordine urbanistico all’altezza delle più importanti capitali europee —, alla più grande piazza della città (316 metri di lunghezza e 147 di larghezza, con un grande giardino centrale), intitolata al re d’Italia, Vittorio Emanuele ii .

Non passò molto tempo, e anziché il vagheggiato passeggio della nuova borghesia settentrionale, quei portici si trovarono a ospitare torme di diseredati provenienti dal meridione in cerca di fortuna, quasi a confermare, in maniera drammaticamente plastica, una delle possibili etimologie del nome del colle su cui si trova la piazza, se per davvero, come qualcuno afferma, “Esquilino” deriva da ex-colere, verbo che si riferisce a “colui che abita fuori”, in contrapposizione a inquilinus, ossia “chi abita dentro”.

Da allora, la piazza romana è diventata uno degli approdi principali per chi viene “da fuori”, dal sud Italia degli albori e dal “sud del mondo” dei decenni successivi. Anche il grande mercato all’aperto — attivo da fine Ottocento, poi chiuso e trasferito nelle vicinanze proprio vent’anni fa —, la «repubblica erbaria», la «gran fiera magnara», con le sue «bancarelle abbacchiare» tra le quali «polpute massaie… annaspavano ad aprirsi il passo», e «con borse ricolme, soffocavano, boccheggiavano», come racconta Gadda nel suo Pasticciaccio, contribuì alla continua trasgressione dell’ordine immaginato dagli architetti umbertini, che di fatto qui non ha mai preso stabile residenza, perché la disciplina urbanistica non è riuscita ad arginare l’esondante varietà umana da cui è popolata la zona, uno gliommero di etnie, lingue e ceti sociali che spesso, purtroppo, si ingarbuglia in complicate situazioni di degrado, contrastate tra l’altro con grande generosità da varie associazioni cittadine.

In una nicchia nascosta della piazza, stretta fra i palazzi, c’è la chiesa di Sant’Eusebio, dove ogni 17 gennaio si celebra la festa di sant’Antonio Abate, monaco egiziano vissuto, tra il iii e il iv secolo, in solitudine, povertà e preghiera nei deserti che circondavano i villaggi e le città del suo tempo. Il santo eremita, che sfuggiva le aggregazioni umane, è in un certo senso, paradossalmente, il protettore di questo chiassoso e popoloso spazio metropolitano. Dai primi del Novecento, in occasione della sua memoria liturgica, sul sagrato della chiesa si impartisce la benedizione agli animali domestici, dei quali l’anacoreta è il patrono. Quest’anno, per l’emergenza sanitaria, gli animali non ci saranno (si possono però portare le loro fotografie). Ma la preghiera del popolo romano si alzerà lo stesso, mescolandosi alle voci della gente che ogni giorno cerca riparo tra i vecchi portici di piazza Vittorio.

di Paolo Mattei