· Città del Vaticano ·

La paternità

Così cambiano i padri

Un’immagine tratta dal film «Padre padrone» di Paolo e Vittorio Taviani (1977)
16 gennaio 2021

Da padrone ad assente, a “mammo”: la verità di un ruolo trasformato


Lunga storia quella dei padri. E in un certo senso, per molto tempo, monotona. Secoli e secoli di un rapporto che — pur senza ignorare l’amore — era caratterizzato dall’autorità e dal potere. Autorità indiscutibile, talvolta derivante addirittura da Dio, talaltra dalle istituzioni. Potere immenso, esteso in tutti i campi, da quello economico a quello religioso, a quello giudiziario.

Fu così nei lunghi secoli del dominio di Roma, quando ai padri spettava lo jus vitae et necis, il diritto di vita e di morte sulla prole e l’autonomia di un figlio era pressoché nulla finché il pater familias era in vita. Patria potestas, la chiamavano i Romani, e gli autori latini ci hanno lasciato impressionanti esempi di questo smisurato potere. Quasi sempre con tono di compiacimento, raramente di condanna. Nel ii secolo d.C. il giurista Gaio riassume così, con orgoglio, la patria potestas: «Non ci sono altri uomini al mondo che hanno sui figli lo stesso potere che abbiamo noi».

Come era inevitabile, una concezione siffatta inserita in un apparato giuridico che non aveva eguali nel mondo antico, diffusa in tutto l’immenso impero romano, trasmessa pressoché inalterata per oltre un millennio (è solo con Giustiniano, nel vi secolo, che si attenua) finirà con l’influenzare anche i secoli a venire e le future nazioni europee, che al diritto romano attingeranno a piene mani. Così, non cambia granché nel Medioevo, cambia poco nel Rinascimento. Bisognerà arrivare al Settecento, con la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale, perché il potere paterno mostri crepe più consistenti. E al secolo scorso per assistere a quella che definisco “rivoluzione paterna”: trasformazioni profonde, radicali, che trovano i loro primi antecedenti proprio negli eventi del xviii secolo e poi nelle due guerre mondiali del Novecento e nella contestazione giovanile degli anni ’60 e ’70 del secolo passato.

Perché questa introduzione? Per meglio comprendere la portata innovativa di un fenomeno che nell’arco di mezzo secolo ha disegnato una figura di padre totalmente nuova. Il tema è amplissimo e lo spazio consente solo poche riflessioni.

Cominciamo con una precisazione: il padre di oggi è davvero — come si dice e si scrive — un padre “assente”, “evanescente”, “svaporato”… e via di questo passo? La risposta è: sì e no. Se si assume a modello il padre romano antico e tutti i suoi epigoni, giù giù fino al “padre padrone” di Gavino Ledda, allora non c’è dubbio che quel padre oggi sia pressoché scomparso e si possa parlare di padre “assente”. Se invece si allude al padre odierno, che assiste al parto perché vuole da subito vivere in empatia con il figlio, che gioca con lui fin dai primi mesi, che collabora attivamente con la madre del piccolo nella cura e nell’accudimento — questo il modello che si va diffondendo da cinquant’anni a questa parte — allora diremo che il padre non solo è presente, ma che a volte è… iperpresente. Nel senso che giunge talvolta ad eccessi, trasformando il suo essere padre in “mammo”, termine svalutativo che richiama una figura inevitabilmente secondaria, una sorta di surrogato, di genitore di serie B. Così come abdica ai suoi compiti paterni quando diviene padre-amico o padre-compagno.

Insomma, mettiamola così: il padre “normativo” — colui che aveva il compito primario di dettare le leggi in famiglia e farle rispettare (spesso con metodi non proprio pedagogicamente ortodossi) — è scomparso e al suo posto si è affermato il padre “affettivo”: desideroso del contatto fisico fin dalla nascita, tenero, coccolone, pronto ad esprimere i suoi sentimenti, permissivo (a volte troppo). A chi legge lascio decidere quale sia da preferire; io non avrei dubbi nello scegliere il secondo, pur con alcuni correttivi.

E visto che abbiamo parlato di padri “affettivi” chiariamo anche che questo termine, nella materia che stiamo trattando, ha assunto due specifici significati. Uno è quello, appena accennato, che contrappone l’affetto alla norma ma presuppone il comportamento del genitore naturale. Un secondo è quello che oppone “affettivo” a “naturale” o “biologico”. E anche qui l’innovazione è profonda, perché stiamo assistendo ad una maggiore considerazione e tutela dei rapporti basati sull’affetto rispetto a quelli dei legami di sangue. Con la rapida trasformazione della famiglia e in particolare con il diffondersi delle famiglie allargate a seguito di separazioni e divorzi, era inevitabile che nascessero rapporti di attaccamento e affetto non legati a vincoli di parentela o affinità. Ed ecco emergere dal passato le figure del patrigno e della matrigna, termini che evocano favole antiche, oggi sostituiti da espressioni quali “altro genitore”, “secondo genitore”, o — prendendo a prestito termini anglosassoni — step-father e step-mother. O, per l’appunto, “genitore affettivo”. Credo che il massimo esempio di paternità affettiva sia quello di san Giuseppe, che pur sapendo che quel Bambino non era suo lo accudisce e lo protegge amorevolmente. Perché — come ha ricordato l’8 dicembre scorso Papa Francesco, in occasione del 150° anniversario della dichiarazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa Universale — “padri non si nasce, lo si diventa”. Non solo — si badi — «perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui».

Oggi queste figure hanno anche il riconoscimento della legge. Molte sono le sentenze che sanciscono il diritto del “secondo genitore” a mantenere un rapporto con i figli del compagno o della compagna nati da una precedente unione dopo una separazione. Anche ai nonni “acquisiti” (detti “nonni sociali”) si riconosce lo stesso diritto. In particolare, una sentenza della Cassazione emessa il 25 luglio del 2018 afferma che il diritto di instaurare e mantenere un rapporto significativo con i nipoti minorenni spetta non solo ai soggetti legati al minore da un rapporto di parentela in linea retta ascendente, ma «ad ogni altra persona che affianchi il nonno biologico del minore (…) che si sia dimostrato idoneo ad instaurare con il minore medesimo una relazione affettiva stabile». Mi sembra una giusta e bella considerazione. Del resto, ce lo insegnavano già gli antichi: il poeta latino Fedro conclude l’apologo La madre con una memorabile sentenza: «Non la necessità, ma la bontà / fa padri e madri».

di Maurizio Quilici
Fondatore e presidente dell’Istituto Studi sulla paternità, collaboratore della Società italiana di psicologia, ex caporedattore dell’Ansa.