· Città del Vaticano ·

«Tolto da questo mondo troppo al dente» recita l’epitaffio sulla tomba del grande attore

Aldo Fabrizi, un istrione
del cinema da riscoprire

Aldo Fabrizi e Totò in una scena del film «Guardie e ladri» «Roma diretto da Mario Monicelli e Steno (1951)
16 gennaio 2021

Secondo una consuetudine un po’ meccanica, gli anniversari tondi sono l’occasione per far riaffiorare dall’oblio figure culturali o artistiche che meritano di essere rivalutate. In questo senso, il trentesimo anniversario della morte del romano Aldo Fabrizi, che ricorreva nel 2020, ci sembra sia stata un’occasione persa.

Intendiamoci, non c’è alcun bisogno di ricordare al grande pubblico la maschera di uno dei maggiori attori italiani del Novecento, capace, in una carriera durata sessant’anni, di recitare in quasi ottanta film, dirigerne una decina, per non parlare dei successi nell’avanspettacolo e nella commedia musicale e delle celeberrime apparizioni televisive negli anni Settanta.

Eppure, si ha la sensazione — avvalorata da un testo esaustivo come I film di Aldo Fabrizi» pubblicato nel 2015 dalla Gremese — che l’attore, regista, sceneggiatore e poeta, Fabrizi — nato nel 1905 a Campo de’ Fiori, nel cuore dell’Urbe — sia rimasto fino ad oggi imprigionato in una lettura critica riduttiva e superficiale e meriti perciò di essere “riscoperto”. Aldo Fabrizi, all’anagrafe Fabbrizi, non fu solo uno straordinario comico romano, corpulento e buongustaio. Parliamo di un artista che esordì come micidiale macchiettista popolare nell’avanspettacolo della Roma del secondo dopoguerra e già, nei suoi primissimi film, rivaleggiò sul set con la superba Anna Magnani. Un attore che a soli quarant’anni era già stato protagonista, nei panni di un sacerdote fucilato dai nazisti, del capolavoro neorealista di Rossellini Roma città aperta», collaborando probabilmente anche alla sua sceneggiatura, come racconta la nipote Cielo Pessione, curatrice dell’archivio del nonno.

Parliamo di un istrione capace di spaziare dalla farsa alla commedia all’italiana, fino al neorealismo, ma anche professionalmente instancabile e sempre pronto a rischiare. Come quando nel 1948 s’imbarca con troupe e cast su una nave diretta a Buenos Aires per girare il suo primo lungometraggio, Emigrantes, dedicato agli italiani d’Argentina. Quasi un docu-film ante litteram. Due anni dopo riceve il primo Nastro d’argento come miglior attore protagonista per il zavattiniano Prima comunione di Blasetti, ma già nel 1947 viene premiato dalla Biennale di Venezia per l’interpretazione ne Il delitto di Giovanni Episcopo di Lattuada.

Scorrendo la sua filmografia si ripercorre la storia del cinema italian10: aiuta Fellini agli esordi, recita accanto a un giovanissimo Sordi, a Macario, Peppino De Filippo. È diretto da Bonnard, Mattoli, Rossellini, Lattuada, Luigi Zampa, Luciano Emmer, Steno, Monicelli e poi — negli anni Sessanta — Bava, Bragaglia, Corbucci, Nanni Loy.

In teatro, nel 1962 e nel 1978, è il memorabile boia Mastrotitta nel Rugantino di Garinei-Giovannini, al Sistina e poi in tournée a Broadway. Ottiene il secondo Nastro d’argento nel 1974 duettando con Gassman nel capolavoro di Scola C’eravamo tanti amati. Ancora, all’inizio degli anni Cinquanta, dirige e interpreta, accanto ad Ave Ninchi, la trilogia della Famiglia Passaguai, anticipando un modello delle sit-com televisive anni Ottanta.

Ma è soprattutto nei cinque film recitati accanto al grande Totò, tra il 1951 e il 1963, che Fabrizi dimostra un carisma attoriale unico nella storia dello spettacolo italiano. Sin dal leggendario Guardie e ladri (1951), e poi soprattutto nello spassoso Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi (1960), l’attore romano riesce a tratti nell’impresa impossibile di rubare la scena al più grande comico del cinema italiano, senza scadere nella macchietta, ma dando spessore umano ai loro indimenticabili battibecchi.

«Tolto da questo mondo troppo al dente», recita l’epitaffio sulla tomba di Aldo Fabrizi al cimitero del Verano. Quest’ultima arguzia malinconica ci sembra celi l’amarezza di un artista generoso e geniale di cui forse dovremmo ricordarci più spesso.

di Fabio Colagrande