· Città del Vaticano ·

Sull’intreccio fra trascendenza, potere e giustizia

Le avventure del pensiero

Piero del Pollaiolo «Giustizia» (1470, particolare)
15 gennaio 2021

In ogni nuovo lavoro di Silvano Petrosino si ha l’impressione di ritrovare un vecchio amico che tuttavia ha sempre qualcosa di nuovo da dirti. È un autore a cui ci si affeziona come ci si può affezionare a un cantante, a un musicista. Vuoi acquistare la prossima uscita per riconoscervi lo stile, la voce che ti piace ascoltare; perché ne apprezzi la particolare prospettiva e sai che non sarà mai scontata.

Nell’ultimo libro di Petrosino Dove abita l’infinito. Trascendenza, potere e giustizia (Milano, Vita e Pensiero, 2020, pagine 104, euro 13) si ritrovano i temi che caratterizzano in modo originale la sua produzione filosofica e che lo rendono riconoscibile. Questo, a nostro avviso, è il primo tratto che ci invita a leggerlo: i suoi libri non sono mai un semplice e spesso sterile sviluppo accademico di ricerche filosofiche; piuttosto si mostrano come autentiche avventure del pensiero sempre sollecitato ad illuminare l’esperienza e a chiarire i tempi in cui viviamo.

L’interesse di Petrosino si è sempre diretto verso l’uomo e il suo modo di “abitare”, declinato sicuramente sul fondamento heideggeriano rivisto, in modo particolare, dalla lezione di Derrida e Lévinas. Se ne abbiamo una sufficiente conoscenza, sappiamo che, per questi autori, interessarsi dell’uomo significa esattamente rifiutare il generico e retorico umanismo che spesso vi alberga. Petrosino si interessa dell’uomo nel momento stesso in cui si adopera a denunciare, insieme alla “retorica nera” di chi da tempo certifica la morte dell’uomo, la “retorica bianca” di chi lo annichilisce usando parole tanto altisonanti quanto astratte. In tanti discorsi sull’uomo si avverte una surrettizia quanto inesorabile tendenza a “capovolgerne” l’esperienza, per dimenticarsi alla fine dell’uomo concreto.

Questi discorsi sono generalmente spiritualisti, guardano in alto, dipingono un uomo, appunto, che “abita l’infinito”. Ma dove abita l’infinito? Chi legge con attenzione il titolo di questo libro, non può che stupirsi di trovare insieme termini che apparentemente sembrano appartenere a sfere esistenziali eterogenee, quali sono la trascendenza, il potere e la giustizia. È infatti un titolo che, a nostro avviso, va letto nella sua provocante composizione ossimorica: chiedendosi perché la trascendenza ha a che fare con il potere, e se la trascendenza ha a che fare con la giustizia. Il problema, per Petrosino, è appunto questo, che spesso la trascendenza si identifica con il potere di chi vuole appropriarsene, come il re Davide e lo stesso Natan, che desiderano costruire una casa dove Dio possa abitare per toglierlo «dalla precarietà di una tenda e metterlo al sicuro all’interno di un luogo stabile e protetto». Come non essere d’accordo? Il «capovolgimento» dell’esperienza di abitare l’infinito ha inizio dalle premesse stesse che manifestano intenzioni all’apparenza legittime e conformi all’esigenza di trascendenza che muove la natura umana.

L’esigenza è nota e più volte ripetuta: costruire e abitare un luogo che sia degno dell’altezza e superiorità di Dio, in cui l’uomo vi si possa rispecchiare come essere creato a Sua immagine. Esigenza talmente ribadita da risultare banale. E diceva Heidegger che il vero non è mai banale. Sull’ambiguità di questa visione religiosa del trascendente è necessario scrutare con attenzione. «L’uomo — scrive Petrosino — ha una vera passione per le “vette” e per il “cielo”, per tutto ciò che sta “in alto” ed è “superiore”. Egli ama le maiuscole e non si lascia mai sfuggire l’occasione di precisare, con un certo compiacimento, che l’amore vero è quello scritto con l “ A ” maiuscola, che la verità a cui bisogna tendere è quella scritta con la “ V ” maiuscola, e così via».

Tale tendenza viene spesso identificata con il divino. Tuttavia quest’ansia, all’apparenza così religiosa, di realizzare una casa per Dio non nasconde forse «un certo realizzo» personale? Siamo pronti a riconoscere che, proprio e soprattutto nella nostra spinta religiosa, ogni realizzazione umana viene «abitata, ventriloquata, travagliata dalla tendenza al realizzo, al possesso, dalla ricerca di quel vantaggio che finisce per trasformare il gesto stesso del porre in una forma di imposizione»? In definitiva: questo desiderio di infinito è all’altezza della giustizia che pretende la parola evangelica, secondo la quale non c’è mai trascendenza senza giustizia? «Le Sacre scritture osano così avanzare un’ipotesi estremamente ardita: santo non è soltanto l’Altissimo ma anche il giusto, o se si preferisce: oltre che a Dio, che è il Santo, la santità può e anzi deve essere attribuita anche al giusto».

Incontriamo a questo punto la tesi di fondo che sorregge il percorso del filosofo e che si offre alla nostra riflessione come un’urgenza che non deve smettere di interrogarci. Sarebbe infatti facile terminare con l’ennesima esortazione a soccorrere i più deboli. Tuttavia potrebbe essere questo un altro modo di rimetterci al centro: il modo di coloro che giudicano pensando di saper dividere il Bene dal Male. Sarebbe la più subdola e raffinata forma di dominio, la stessa che trasforma la religione in una forma di potere.

Occorrerebbe invece una sorta di de-centramento, una dis-locazione radicale che non sembra conforme alla natura umana, spinta dal desiderio (camuffato spesso in forme religiose) di prendere e manipolare ciò che invece sfugge inesorabilmente a qualsiasi presa; desiderio di portare a presenza (stabilità, rassicurazione, certezza) ciò che irriducibilmente eccede ogni dominio. La necessità di questa dis-locazione ci conduce a riconoscere nell’esistenza umana il carattere fondamentale del nomadismo: esistenza come «ospitalità-ospitata prima ancora e anzi come condizione stessa di ogni possibile ospitalità-ospitante». Un libro importante che merita la massima attenzione.

di Enrico Garlaschelli