· Città del Vaticano ·

La speranza che qualcosa torni dal mare

Marc Chagall, «Athéna et Télémaque» (1975)
14 gennaio 2021

Pubblichiamo un brano del libro «Telemaco non si sbagliava. O del perché la giovinezza non è una malattia» (San Paolo, 2018).

Telemaco rappresenta il figlio, anzi, è il figlio per eccellenza, nel senso che la sua storia si offre proprio come storia di un figlio, che concepisce se stesso a partire dall’assenza di un padre, dalla ricerca della relazione con un padre che non ha mai conosciuto.

La differenza fondamentale che c’è tra Telemaco e tutti gli altri figli presenti nella mitologia, o nelle narrazioni delle culture del passato, sta nel fatto che Telemaco non è un figlio arrabbiato o, perlomeno, non è arrabbiato con il padre. È un figlio che attende il padre, che vive la propria crisi come quella di un figlio che sta attendendo un ritorno, che sta cercando un significato alla propria esistenza.

Ecco, dunque, che l’immagine che ci viene alla mente quando pensiamo a Telemaco, non è quella di un uomo ripiegato su se stesso.

La figura più significativa di Telemaco è quella di colui che, sulla spiaggia, attende il ritorno del padre, così come Omero nell’Odissea ci racconta. Egli scruta l’orizzonte del mare, in attesa di scorgervi il ritorno vittorioso e glorioso di Ulisse.

Prima di soffermarci sull’immaginario di Telemaco, è importante che sostiamo sulla posizione che egli ha nei confronti della vita, la posizione antropologica ed esistenziale che egli rappresenta con la sua esperienza e con la sua storia. Telemaco non è rivolto al passato. In un certo senso potremo dire che non è ossessionato dal perché il padre è dovuto andare via. Certo, nella vita di una persona conoscere i perché è sempre qualcosa di molto importante, ma la ricerca dei perché può anche trasformarsi in ossessione. Telemaco ci dimostra che il non essere ossessionati dal perché del passato ci rimette esistenzialmente davanti al futuro, quasi a voler significare che la cosa più interessante della vita è quello che deve ancora accadere, non semplicemente il già accaduto.

In questo senso, riprendendo qui l’immagine del complesso d’Egitto, dovremmo dire che il punto di vantaggio di Telemaco sta nel fatto che è un giovane guarito; guarito dal complesso d’Egitto. Telemaco non è ostaggio del passato. Forse non è una persona ancora pienamente libera, ma è in uno stato di liberazione. In lui ci sono tutti i presupposti affinché la libertà possa essere possibile. In Telemaco troviamo tutti i presupposti veri di ogni liberazione degna di questo nome.

È importante però precisare che se da una parte diciamo che Telemaco è guarito dal complesso d’Egitto o, perlomeno, non è segnato dalla morsa della sua ferita, dobbiamo però anche dire che la sua “posizione giusta” non gli risparmia la crisi. Telemaco è, infatti, una persona in crisi. È l’immagine del figlio della crisi, l’immagine della giovinezza, di ciò che noi abbiamo definito prima come la crisi simbolica che rende la vita veramente vita. E la crisi è tale proprio perché ci toglie il controllo, perché a volte ci convince di aver capito ciò che, invece, abbiamo semplicemente frainteso. Anche per Telemaco accadrà questo: ad esempio, penserà che liberarsi dai Proci che tengono in ostaggio la madre e il regno, sia la cosa più decisiva per la sua libertà. Da una parte vuole difendere la madre, ma dall’altra difende se stesso, la propria esistenza, da coloro che rappresentano tutto ciò che assedia la felicità e la realizzazione vera. È precisamente il fraintendimento che la crisi gli suggerisce. In un certo senso dovremo dire che non basta liberarsi da un nemico per dire di avere veramente vinto. Non basta liberarsi da un ostacolo per dire che alla fine siamo davvero felici. Ci sono momenti della nostra vita in cui inconsciamente persino speriamo di avere un nemico, perché è la sua presenza ad allontanarci dalla percezione che la nostra vita è vuota di significato.

È quando scompaiono dal nostro orizzonte i nemici, che molte volte facciamo l’esperienza del vuoto. Ci svegliavamo al mattino, con la motivazione di combattere qualcuno, ma quando non abbiamo più quel qualcuno da combattere ci accorgiamo che non c’è nient’altro di interessante. Ecco perché Telemaco dovrà imparare che la cosa più importante non è eliminare i Proci, non è semplicemente togliere di mezzo l’avversario ma attendere un padre, cioè attendere un significato nella propria esistenza. Attendere un significato che, in realtà, si offrirà a lui come la possibilità vera di vivere.

E qui giungiamo finalmente all’immaginario di Telemaco. Quando egli pensa al futuro, non riesce a non rappresentarsi la propria stessa attesa. Quando pensa al ritorno del padre, lo vede sempre glorioso, in grande stile. Il padre, da grande guerriero, tornerà e metterà in ginocchio i nemici. In verità, Ulisse tornerà, ma travestito da mendicante. La sua entrata in scena nella vita di Telemaco sarà tale che il figlio non si accorgerà, inizialmente, nemmeno di lui. Solo con il tempo imparerà a conoscere di chi si tratta, quando farà discernimento su quell’uomo, sul condottiero travestito da mendicante. Sarà inizialmente traumatico per lui incontrare il padre nella povera casa del servo Eumeo. Telemaco stenta a crederci. Omero usa parole bellissime per descrivere la scena in cui Ulisse si rivela per chi è veramente: «Non sono un dio. Perché mi paragoni a un immortale? Sono tuo padre, quello per cui tu piangi e soffri tanto dolore, subendo le violenze dei Proci». Disse così, e baciò suo figlio, mentre dalle guance gli cadevano a terra le lacrime che prima aveva sempre frenato. E ancora gli disse Telemaco, non credendo che fosse suo padre: «No, tu non sei Odisseo, non sei mio padre, è un dio che mi illude perché io soffra e pianga ancora di più. Non può fare questi prodigi un uomo mortale, da solo, se non interviene un dio che può renderlo facilmente giovane o vecchio, se vuole. Tu poco fa eri un vecchio e vestivi miseri cenci: e ora assomigli agli dei che il vasto cielo possiedono». A lui rispose l’accorto Odisseo: «Non è bello, Telemaco, che ti stupisca e ti meravigli a tal punto perché tuo padre è tornato. Qui non giungerà mai più un altro Odisseo: sono io che, dopo aver tanto errato e tanto sofferto, sono giunto dopo vent’anni alla terra dei padri».

di Luigi Maria Epicoco