· Città del Vaticano ·

Alla ricerca del padre: il mito di Telemaco

Imparare a crescere

Henri-Lucien Doucet, «Ulysse et Télémaque» (1880)
14 gennaio 2021

Nel violento momento clou dell’Odissea di Omero — la scena nel libro ventiduesimo in cui Ulisse uccide spietatamente l’orda di pretendenti che da anni assediano sua moglie — c’è uno straordinario momento di quiete e di perdono; perfino di grazia, si potrebbe dire. La violenza è una conferma potente, se non addirittura brutale, del vincolo coniugale: dopo anni di sofferenza, un uomo punisce gli empi invasori della sua casa e salva la donna che ama, riaffermando il suo status di marito. Ma il momento di grazia al quale sto pensando — che è, a modo suo, un momento clou proprio come lo spargimento di sangue che si svolge attorno a esso — è la testimonianza di un’altra importante storia d’amore che attraversa tutta la grande epica omerica: quella del rapporto tra Ulisse e Telemaco, tra un padre e suo figlio.

Gran parte dell’epopea riguarda infatti Telemaco, riguarda l’arco della sua maturazione: egli è caratterizzato, più di ogni altro personaggio del poema, da una evoluzione drammatica. Di fatto, dei ventiquattro libri dell’epopea i primi quattro sono dedicati quasi interamente a Telemaco; Ulisse non viene quasi menzionato (questi quattro libri sono detti Telemachia: il canto su Telemaco).

Qui, all’inizio del poema, Ulisse è partito ormai da vent’anni e nessuno sa se è vivo o morto, se Penelope è moglie o vedova, se Itaca ha un re o ha bisogno di uno re nuovo. Telemaco — che Ulisse ha lasciato neonato quando è partito per combattere a Troia e ora è un giovane ventenne, allevato (come diremmo noi) da una madre sola — deve in qualche modo imparare come essere anche lui un eroe, come assumere il controllo della situazione caotica a Itaca, come strappare l’autorità ai pretendenti della madre, come affermarsi quale leader, principe, futuro re.

Deve, in altre parole, imparare a crescere: a diventare quel tipo d’uomo che era stato il padre scomparso. Il processo di apprendimento iniziato in questi quattro libri culmina, di fatto, nel momento di grazia da me menzionato.

Sotto molti aspetti il percorso di Telemaco è difficile quanto quello di suo padre. Se Ulisse è famoso per la sua notevole abilità intellettuale, con i suoi trucchi e le sue astuzie, i travestimenti e i giochi di parola, va detto che suo figlio, quando l’incontriamo per la prima volta, è incline, in modo imbarazzante, agli errori e alle cantonate. All’inizio del poema lo troviamo di malumore, seduto nella sala dei banchetti del palazzo reale a lamentarsi senza fare niente mentre i pretendenti lo umiliano e lo mettono in imbarazzo. A un certo punto cerca di parlare a propria difesa, ma essi non fanno altro che trattarlo con sufficienza. Nel libro secondo il giovane principe convoca un’assemblea dei cittadini itacesi per convincerli ad aiutarlo nella sua crisi familiare. Ma dopo aver tenuto un breve discorso e denunciato i pretendenti, scoppia in lacrime e si siede indignato.

Questo giovane sfortunato è il personaggio di cui il poema ha bisogno per “educare” — un processo che inizia nella seconda metà della Telemachia. Di fatto, nei libri terzo e quarto Telemaco, ispirato dalla dea Atena, per la prima volta lascia la propria casa al fine di imbarcarsi alla ricerca di notizie sul padre. Recandosi prima a Pilo nel Peloponneso e poi a Sparta, interroga gli ormai anziani compagni di guerra del padre, cercando di sapere da loro che cosa potrebbe essergli successo. In questi libri vediamo il giovane imparare, per la prima volta, come presentarsi agli estranei, come essere ospite a casa della gente, come suscitare simpatie, come ottenere informazioni — in breve, come trattare con le persone. In altre parole, lo vediamo imparare a crescere.

Il momento più importante nell’educazione di Telemaco giunge però nell’ultima parte dell’Odissea: la parte della “vendetta”. Ritornato finalmente a Itaca (libro tredicesimo), Ulisse — che continua a nascondersi perché ancora non sa chi gli è rimasto fedele e chi no — rivela la sua identità a un figlio stupito. Dando prova di uno straordinario acume psicologico, Omero rende questo incontro stranamente, intensamente deludente: un Telemaco incredulo all’inizio rifiuta di accettare la rivelazione (dopotutto, non riescono a “riconoscersi”, perché non si sono mai davvero conosciuti; a ogni modo, raramente la realtà è perfetta come la nostra immaginazione). Una volta che Telemaco ha assimilato il colpo, i due iniziano a tramare contro i Proci, un piano che prende forma lentamente e che mostra quanto il giovane uomo sia diventato responsabile e maturo.

Questo Telemaco maturo e dotato di autocontrollo, però, compie un errore quasi fatale durante la battaglia centrale nel libro ventiduesimo: ed è questo errore a portare al momento di tranquilla grazia, il bel momento che ci dice molto su quanto questo figlio e questo padre sono cresciuti.

Nel libro ventiduesimo, quando finalmente si prende forma il complotto contro i pretendenti, ci sono 108 Proci contro i soli Ulisse, Telemaco, due servitori fedeli e una anziana schiava che li aiuta con il loro piano. Ma le probabilità di riuscita sono meno terribili di quanto possono apparire all’inizio. Infatti, l’eroe e i suoi compagni sono armati, mentre i Proci non lo sono; Ulisse si è assicurato che la stanza in cui vengono conservate tutte le armi del palazzo sia chiusa con il chiavistello. E quindi, quando inizia lo scontro, Ulisse e i suoi prevalgono. Ma a un certo punto, dopo che Telemaco è tornato al deposito per prendere altre armi, appaiono alcuni pretendenti con indosso armature e armi: è evidente che qualcuno deve aver lasciato aperta la porta del deposito.

Quel “qualcuno” è Telemaco. Quando vede i suoi nemici armati, Ulisse subito pensa che il suo piano sia stato rivelato da uno dei servitori; ma in una scena straordinaria Telemaco freddamente si assume la responsabilità: «“Padre”, rispose, / “Io sol peccai, non altri, io, che la salda / Porta lasciai mezzo tra chiusa e aperta; Ed un esplorator di me più astuto / Si giovò intanto del mio fallo”».

Ora, sono due le cose straordinarie che avvengono in questa scena: anzitutto va notata la facilità, la sicurezza e l’onestà con cui Telemaco riconosce il suo errore — in modo chiaro, senza scuse; è molto lontano dal ragazzino lamentoso che nel libro secondo ha sfidato i notabili durante l’assemblea e si è messo a piangere perché non sapeva come affrontare la situazione. La seconda cosa straordinaria che accade è, ebbene: niente. Sorprendentemente, sebbene l’inesperto Telemaco — che, è bene ricordare, non ha mai assistito a un combattimento prima di allora — abbia fatto un errore che sconvolge la vita non solo di Ulisse, ma anche dei suoi pochi compagni fidati, Ulisse, il padre, il comandante, in risposta all’ammissione di colpa di Telemaco non dice nulla su quanto è accaduto. E in quello che avrebbe potuto essere un momento di recriminazione, il padre semplicemente perdona suo figlio e continua a combattere.

Questo sarebbe già di per sé straordinario, ma è tanto più sorprendente in quanto tutto il resto di questa scena dell’Odissea, che è una delle più cruente e spietate della letteratura mondiale, riguarda il non perdonare. Durante la carneficina ripetutamente c’è chi chiede a Ulisse di risparmiargli la vita e lui continua a rispondere «No». Di fatto, il libro non termina solo con il massacro dei Proci, ma anche con l’esecuzione, da parte di Ulisse, di tutte le giovani ancelle infedeli del palazzo, che avevano dormito con i pretendenti e tradito la famiglia reale. Nel libro ventiduesimo la vendetta è ovunque — tranne che nel cuore di Ulisse, che ha trovato grazia per il proprio figlio.

Perché? Vorrei dire che ciò che questa intensa scena del poema epico ci mostra sono due persone che hanno imparato dai propri errori. Anzitutto Telemaco, ovviamente, che è alquanto cresciuto, che ha imparato che rimanendo seduto a piangere e a sperare che qualcuno arrivi a salvarlo non avrebbe risolto nulla; che inoltre riconosce come assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Ma è possibile che l’altro a “imparare” in questa scena sia lo stesso Ulisse, l’uomo brillante, astuto, saggio? Possiamo leggere il silenzio di Ulisse nel libro ventiduesimo —– quel “momento di grazia” — come la sua impresa più grande? Non possiamo forse dire che la sua genialità sta nel sapere non solo che cosa dire o fare — quali menzogne raccontare, quali astuzie compiere, quale travestimento adottare — ma anche che cosa non dire?

C’è un’antica tradizione risalente al filosofo del iii secolo Porfirio — uno dei primi studiosi a scrivere saggi interpretativi sull’Odissea — secondo cui il tema dei primi quattro Libri dell’Odissea, la Telemachia, è paideusis, «educazione».

La parola greca sostanzialmente deriva da pais, «un bambino»: educare è qualcosa che si fa con e per i bambini. Ma è anche possibile che l’Odissea sia un poema su due educazioni. Anzitutto l’educazione di un ragazzino che, nel corso del poema, cresce, impara a essere uomo; ma anche l’educazione di un uomo già adulto che riteneva, come di tanto in tanto facciamo tutti, di essere quello furbo, quello intelligente — ma che ha mostrato il meglio di sé solo quando ha compreso di avere ancora tanto da imparare, anche da qualcuno più giovane di lui.

Vale a dire da una persona giovane: qualcuno che esemplifica la speciale dignità che accompagna la disponibilità ad ammettere che ancora non si sa tutto. L’Odissea contiene molte storie, molti temi, molti elementi, alcuni dei quali, oggi, ci possono sembrare irrimediabilmente oscuri e arcaici. Ma il momento tranquillo di clemente grazia con cui si conclude, rappresentato dall’amore di un padre per un figlio, è un momento dal quale tutti possiamo ancora imparare.

di Daniel Mendelsohn