· Città del Vaticano ·

«Una comunione di donne e di uomini» di Anne-Marie Pelletier

Per una piena fioritura
delle differenze

«Storie della Genesi: Creazione degli elementi» (XII secolo)
13 gennaio 2021

Un approccio veramente costruttivo al problema della donna nella Chiesa richiede una profonda riflessione sulla Chiesa stessa, una rivisitazione dell’ecclesiologia nei suoi passaggi epocali. La posizione di subalternità in cui è relegata la donna diviene rivelativa di quella “distorsione” che domina l’istituzione ecclesiastica, allo stesso tempo, l’assunzione di consapevolezza porta luce sul travaglio che l’attraversa, maturando le condizioni capaci di favorire una reale ecclesiologia di comunione. Questo il filo conduttore dell’ultimo libro di Anne-Marie Pelletier, Una comunione di donne e di uomini (Magnano, Edizioni Qiqajon, 2020, pagine 265, traduzione di Valerio Lanzarini).

La comunione richiede quello spostamento dalla legge all’amore e alla misericordia, connaturato all’annuncio evangelico, che non può rinunciare al femminile. Richiede l’affermarsi di quell’ordine superiore che regola le relazioni umane che Gesù chiama regno e che implica il superamento di ogni vincolo di oppressione e di potere. Non si tratta pertanto di rivendicare per le donne parte dei ruoli assunti esclusivamente dal clero, quindi da uomini, ma di assumere la maturità di fede che dona lo Spirito.

«La questione delle donne nella Chiesa non si esaurisce in una problematica di poteri da redistribuire», ma riguarda la possibilità «di innervare il corpo ecclesiale di femminilità battesimale» affinché la Chiesa diventi realtà viva di autentica comunione. Si tratta di «ripartire dalla fonte: lo Spirito Santo, nel quale la Chiesa è fondata, istituita, inviata in missione». Spetta alle donne il compito di assumere consapevolmente l’investitura che lo Spirito dà a ogni battezzato. Sarà la crescita spirituale a scardinare ogni sbilanciamento e a riequilibrare. Non serve esaltare il «genio femminile» per poi continuare a mantenere le distanze fra il clero e le donne, bensì intraprendere un cammino di verità nel reciproco rispetto e nella reciproca valorizzazione perché l’eschaton a cui tende il regno è la piena fioritura delle differenze e la loro armonizzazione nell’unità che è il corpo di Cristo.

All’interno di questo processo in atto assumono particolare rilievo i risultati raggiunti dall’esegesi femminista delle Scritture. Femminista nel senso che assume uno sguardo particolarmente attento verso il femminile racchiuso nel testo biblico a volte velato, altre volte assai esplicito come esemplarmente messo in luce da molte figure a partire dalle matriarche. Se infatti è del tutto evidente «la modellatura maschile — androcentrata — della parola biblica», pure la portata rivelativa delle Scritture ne fa emergere una sottile «intelligenza antropologica e spirituale» capace di restituire al femminile una posizione rilevante che pone la donna, seppure non in un rapporto paritario con l’uomo, certo però molto dinamico.

Il problema sta dunque nell’interpretazione. Per secoli intrapresa solo da uomini, ha colto per lo più aspetti correlati a un’ottica maschile. Un esempio fra tutti il passo della Genesi (3, 21-22) relativo alla creazione della donna. Giustamente Pelletier sostiene un’interpretazione che ribalta quella tradizionale. Il termine ebraico tzela tradotto con «costola», in realtà significa «lato, fianco» e allude a due parti simmetriche accostate fra loro, come i battenti di una porta. Ne deriva che Adam, non è maschio, ma portatore in sé di una parte maschile e di una femminile, poi separate in , uomo, e iššah, donna, al fine di permetterne la relazione. Questo importante lavoro esegetico riconduce sulla linea di una teologia sapienziale, sofiologica, che comporta la conoscenza esperienziale, mistica di Dio. Implica una reale crescita spirituale e quell’assunzione di autorevolezza capace di liberare non solo le donne, ma anche i laici, dal rapporto di devota sottomissione paternalistica al clero.

Ma veniamo ai nodi cruciali. Nei primi tre secoli, cioè al tempo delle persecuzioni e del martirio «fa riscontro una teologia battesimale integrante e unificante» che pone uomini e donne fianco a fianco. La Chiesa educa tutti i suoi membri a «un’intelligenza mistica dell’appartenenza a Cristo», sponsale. I battezzati ricevono il titolo di photizómenoi, «illuminati», sono formati a vivere il senso profondo dei sacramenti dell’iniziazione, a considerare «la dimensione mistica, da intendere come innesto nel mystérion» e la santità come condizioni ordinarie della vita cristiana. Con l’editto di Costantino conformismo e abitudinarietà vanno a sostituirsi alla forza di conversione. Le prospettive di un’ecclesiologia «integrante (la Chiesa come corpo organico) e fondamentalmente mistica (la Chiesa in relazione nuziale con Cristo), avrebbero finito per battere in ritirata» e migrare nei monasteri come «marginalità ardente». Ne deriva l’affermarsi di una logica di differenziazione tesa a dividere il corpo ecclesiale. L’assetto fortemente gerarchico trova il suo più solido fondamento nel sacerdozio ministeriale e nel costante depauperamento spirituale del popolo cristiano: «Ai chierici i profunda, ossia le verità a contatto con il mistero (…); ai laici gli aperta, ossia le verità semplificate».

Il problema della donna viene dunque a inserirsi nella più ampia problematica che riguarda la divisione tra clero e laici e svalorizza il sacerdozio battesimale. È su questa linea di demarcazione che oggi come non mai si impone il «segno della donna che ricordi la verità della sovreminenza del sacerdozio battesimale». Le donne, proprio in quanto escluse dal sacerdozio ministeriale, divengono viva memoria di quel «centro di gravità di ogni vita evangelica, al di là dei ruoli, delle distinzioni e delle gerarchie» che strutturano l’istituzione. Il punto è che tale segno sia accolto. L’obiettivo è come ribaltato: non è tanto la rivendicazione del sacerdozio ministeriale per le donne, «rivendicazione che sconfina ancora nel clericalismo», quanto di mettere in luce «una via molto più giusta e feconda: quella di donne che appropriandosi pienamente della realtà del loro battesimo, ne fanno leva della conversione ecclesiologica».

Pelletier sottolinea come di fatto i due sacerdozi differiscano per natura non di grado in quanto «il sacerdozio ministeriale esiste unicamente come servizio del sacerdozio battesimale»: come a dire che quanto è proferito come atto sacramentale dal presbitero deve essere incarnato dai battezzati che divengono a loro volta «sacramento di Cristo ovunque vivano». Anche la questione relativa a un possibile diaconato femminile non dovrebbe ridursi al promuoverne l’istituzione, bensì favorirne l’incarnazione del carisma. Accogliere il «segno della donna» equivale a riportare al centro della vita cristiana la via mistica, a incentivare l’espansione della Chiesa mariana/giovannea come contrappeso della Chiesa petrina. L’emersione del femminile ripristinando la centralità dello Spirito Santo, della teologia sapienziale, incarna naturalmente la forza capace di scardinare la rigidità dell’assetto gerarchico.

«Ecco un potente antidoto al clericalismo, a quella maniera di concepire il sacerdozio ministeriale e di viverlo come gerarchia di autorità e di potere». Il femminile esprime l’anima contemplativa, l’assunzione della bellezza come misura incarnata di ogni gesto ordinario. Più porta al centro l’esperienza mistica, più permette al cristianesimo di incarnarsi. Più diviene vivo canale dello Spirito, più si trasforma in forza capace di smantellare quanto soffoca la gestazione spirituale: «La salvezza, in definitiva, avviene al ritmo di un generare misterioso — così paziente e silenzioso — come il tessersi della vita nel grembo materno». Solo lo Spirito permette alla carità di incarnarsi, promuove relazioni di autentica comunione fra laici e presbiteri, donne e uomini, favorisce l’unità della Chiesa trasformandola in corpo organico, mistico, cioè in rapporto nuziale con Cristo.

di Antonella Lumini