· Città del Vaticano ·

Il diario di due sacerdoti malati di coronavirus

Calice e ostie
nel reparto covid

 Calice e ostie nel reparto covid Calice e ostie  nel reparto covid   QUO-009
13 gennaio 2021

«È stata una rigenerazione spirituale». «È stato un tempo inzuppato di grazie». Così don Marco Fibbi e don Valerio Bortolotti descrivono la loro esperienza con il covid. Don Marco, cappellano coordinatore degli istituti penitenziari di Rebibbia, e don Valerio, parroco della chiesa Santa Maria Immacolata a Grottarossa, si sono ammalati quasi nello stesso periodo, fra ottobre e novembre, e sono stati ricoverati in due strutture diverse, la clinica Columbus, il primo, e il Policlinico Umberto i , il secondo.

«Quando ho cominciato ad avere i primi sintomi, febbre, male alle ossa, brividi, mi sono allontanato dalla mia abitazione, dove vivo con altri sacerdoti, e mi sono auto-isolato in un’altra casa», racconta don Marco. «Dopo qualche giorno, il 17 ottobre, ho saputo di essere positivo. Il 23 il mio medico mi ha prescritto il ricovero. Non avevo più la saturazione sufficiente e avevo la febbre molto alta. Si era sviluppata una polmonite bilaterale. Sono stato ricoverato alla Columbus, dove ho fatto un giorno di terapia subintensiva e poi una degenza ordinaria per undici giorni. Non respiravo bene, perciò portavo la maschera dell’ossigeno giorno e notte. La toglievo solo per mangiare. Ho vissuto questa esperienza in totale abbandono. Non potevo uscire dalla mia stanza e ho passato il tempo leggendo, guardando la televisione o qualche film sul cellulare e comunicando con qualche stretto collaboratore. In tempi normali, si hanno tante cose da fare e se ne trascurano tante altre. In questa circostanza, ho avuto un tempo maggiore da passare con me stesso e con il Signore. Si riscopre la dimensione del tempo. Sai di essere nelle mani di Dio, perché l’evoluzione della malattia è imprevedibile, non dipende da te. Bisogna lasciar fare ai medici e non avere fretta. Non ho avuto molta occasione neanche di fare il sacerdote. C’è stato solo un giovane medico che, ogni giorno, prima di andare via, chiedeva la benedizione perché “la mamma ci teneva molto”. Forse, una forma di pudore, per non fare una chiara professione di fede. No, non ho avuto paura, piuttosto ero stufo perché dopo le dimissioni, avvenute il 4 novembre, sono stato ancora in isolamento domiciliare fino al 13 novembre. Quindi, per un mese, ho avuto contatti solo con il personale del nosocomio, che ringrazio davvero tanto per le cure e la attenzioni, dai portantini ai medici».

«Sono stati di grande aiuto — prosegue don Marco — anche i messaggi delle persone che sono state in contatto con me e quelle che mi hanno sostenuto attraverso la preghiera. Tra queste c’erano anche i detenuti. Si sono interessati molto, non vedevano l’ora che tornassi, anche perché sono una tra le poche persone che possono vedere con regolarità. Il caso ha voluto che, sui quattro cappellani del Nuovo complesso, ne rimanesse solo uno, per 1.400 detenuti. Una situazione difficile per tutti. Quando sono uscito dall’ospedale ero parecchio indebolito e camminavo con un po’ di difficoltà. Piano piano ho recuperato le forze e ho ripreso gradualmente il lavoro. Ora sto bene. Quando sei abituato a vivere a una certa andatura e ti tolgono tutti gli impegni sei in una specie di letargo, poi riscopri tutta la bellezza del fare. Per me è come una nuova nascita».

Diversa l’esperienza di don Valerio, che, per dodici giorni, si è trasformato nel cappellano del reparto, dicendo messa, dando la comunione e conferendo l’estrema unzione. La sua storia, raccontata scherzosamente sui social, in una sorta di telenovela, inizia con «stanchezza, febbretta, tossetta, raffreddore». Poi il peggioramento. La febbretta diventa febbrone, il tampone da negativo vira a positivo, l’affanno aumenta e di corsa in ospedale, dove gli viene riscontrata una polmonite bilaterale. Ossigeno e flebo. Era il 19 novembre. «Ero nel reparto covid a bassa intensità del Policlinico», racconta. «Non ero particolarmente moribondo ma neanche granché vispo, mi stancavo facilmente se stavo troppo in piedi e, nei primi giorni, avevo la tosse e la febbre alta». Il bagno era fuori della stanza e questa circostanza ha fatto sì che il sacerdote avesse una certa libertà di movimento, che ha sfruttato per sostenere gli altri degenti e per svolgere il suo lavoro. Sì, perché don Valerio, nel preparare la valigia prima del ricovero, non ha mancato di inserire, fra un maglione e un pigiama, anche i ferri del mestiere: calice, ostie, vino e bottiglietta per l’acqua. Da un tavolino, trasformato in un altare, diceva messa, con un po’ d’affanno ma con tutti i crismi. E soprattutto di notte, «perché il cortisone tiene svegli» e perché, dopo i rituali medici quotidiani, si è un po’ più tranquilli.

A fargli da Caronte nel reparto, rivelandogli tutti i segreti, è stato Emanuele, il suo compagno di stanza. Emanuele, «raro esemplare di cattolico praticante», è un autista dell’Atac, contagiato da una figlia e con la polmonite. Simpatico e socievole, è stato lui che gli ha presentato Nino, 88 anni, detto er Polpettone, per via della stazza imponente. «Fabbro di Borgo Pio, Nino è un uomo nobile d’animo e sereno, ancora molto innamorato di sua moglie, con cui è sposato da 72 anni», racconta nelle sue cronache “don Viruslerio”. Prima di morire, «il Signore deve farmela abbraccicà», ripeteva. Monica, invece, l’ha conosciuta tramite una dottoressa infettivologa, gentile e amorevole. Monica, l’unica donna del reparto, era una signora molto anziana e minuta che giaceva in un lettino, con gli occhi persi nel vuoto ma vigile.

«Era allo stremo e io le ho dato l’unzione degli infermi mentre la dottoressa, diventata figlia, l’accarezzava. Dopo qualche giorno si è ripresa ed è diventata negativa. L’hanno portata in un altro reparto ma, appena arrivata, è morta. La notte le ho celebrato il funerale nella mia stanza». A don Valerio è capitato un’altra volta di dare l’estrema unzione. Ivano è arrivato al reparto sabato 21 novembre e il suo cuore si è fermato, in modo del tutto inatteso, domenica 22. «Sopra il suo letto c’era l’unico crocifisso del reparto. Non è morto da solo». Da quel giorno, il crocifisso di Ivano è stato appeso alla flebo del sacerdote, per una doppia infusione di cure. Don Valerio parla di un’esperienza ricca e profonda. «Mi sono sentito oggetto dell’amore di Dio, che si è manifestato in tutti i modi. Ero preoccupato per la parrocchia, invece, grazie a preti amici e a tanti volontari, l’attività è andata avanti benissimo e con frutti nuovi. Ora punto sulle cose importanti, sull’essenziale».

di Marina Piccone