· Città del Vaticano ·

Dall’Atlante sui conflitti socio-territoriali in Amazzonia

Un grido sempre più forte

 Un grido sempre più forte  QUO-008
12 gennaio 2021

Oltre milletrecento conflitti in zone indigene e agricole nella regione amazzonica, con conseguenze dirette sulla popolazione locale e quasi 170 mila famiglie coinvolte; centinaia di omicidi, minacce di morte e sgomberi forzati a causa del cosidetto “agro-business”: sono i numeri preoccupanti, riferiti agli anni 2017 e 2018 e contenuti nel primo «Atlante dei conflitti socio-territoriali panamazzonico» presentato nelle scorse settimane nell’ambito del ix Forum sociale panamazzonico da un gruppo di organizzazioni coordinate dalla Commissione per la pastorale della terra (Cpt), emanazione della Conferenza episcopale brasiliana. Il documento, alla cui realizzazione hanno contribuito, tra gli altri, anche l’Università dell’Amazzonia in Colombia e l’Osservatorio brasiliano per la democrazia, i diritti umani e le politiche pubbliche, si sofferma in particolare sulla situazione di Brasile, Colombia, Perú e Bolivia. Nel biennio preso in considerazione sono stati rilevati 118 omicidi, la maggior parte dei quali in Brasile dove l’agrobusiness — allevamento intensivo di bestiame e coltivazione di monocolture come soia, cotone, palma da olio, eucalipto — rappresenta il 60 per cento delle cause di conflitto registrate mentre 351 persone sono state arrestate, detenute o sottoposte a procedimenti giudiziari per la difesa del proprio territorio. Quattrocento invece i casi totali di sfratti dalle proprie case, 380 delle quali poi distrutte, per fare spazio a giacimenti minerari, petroliferi o per l’estrazione di gas, cui si aggiungono interventi di deforestazione che rappresentano il 13 per cento dei conflitti.

Un quadro allarmante che ha accelerato la prima riunione, online, della Conferenza ecclesiale dell’Amazzonia (Ceama), organismo nato lo scorso giugno e presieduto dal cardinale Cláudio Hummes. Lo scopo della Ceama, ha affermato il porporato, è di essere a fianco del popolo e di rappresentanti delle diverse etnie, spingendosi fino in fondo «per ascoltare con determinazione, prestando attenzione alle comunità, perché sono loro che possono parlare della vita del territorio e costituire la base della sinodalità». Occorre quindi tenere presente e seguire determinate urgenze pastorali come «il mantenimento dell’opzione preferenziale per i poveri, lavorare con e dalle periferie, promuovere la partecipazione delle donne ai diversi processi guidati dalla Chiesa e la riflessione sui ministeri ordinati, attuare una diversa pratica pastorale con una dimensione indigena, capace di favorire la salvaguardia della natura, a partire da una Chiesa inculturata».

Nel complesso e difficile contesto della regione amazzonica un problema ulteriore è costituito dall’emergenza sanitaria causata dalla pandemia. Quest’ultima, ha osservato Hummes intervenendo al vertice online «El grito de la selva», organizzato dal Coordinamento delle organizzazioni indigene del bacino amazzonico (Coica) e che ha visto la presenza di leader indigeni e rappresentanti di associazioni che operano nel sociale, ha mostrato nell’area, «come mai prima, la natura immorale delle disuguaglianze e l’esigenza che una nuova normalità sostenuta nel dialogo metta i potenti di fronte alla solitudine di coloro che sono scartati». Il porporato ha auspicato in proposito che i nuovi vaccini siano gestiti rispettando i diritti di tutti, senza distinzioni tra poveri e ricchi, evitando speculazioni di natura economica a danno dei più vulnerabili, come i popoli indigeni della regione.

Il vertice della Coica ha affrontato principalmente la drammatica incidenza di covid-19, incendi, violenza e cambiamenti climatici sulla difficile situazione di questo grande polmone verde, menzionando gli oltre 1.749 morti e i 58 mila casi di coronavirus che hanno colpito 239 popolazioni del bacino amazzonico. Di fronte a tali gravità, i partecipanti avevano in precedenza chiesto una pronta azione tramite una lettera indirizzata ai capi di Stato che si sono incontrati virtualmente il 30 settembre scorso per la settantacinquesima assemblea generale delle Nazioni Unite, esortandoli a rispettare e rilanciare l’accordo di Parigi del 2015 sul clima (Cop21). Anche nel nome delle comunità amazzoniche, abbracciando programmi di sviluppo sostenibile e rispettoso dell’ecosistema e abbandonando quei modelli di progresso deleteri non solo per questo grande polmone verde ma per tutta l’umanità. Impegni doverosi, hanno sostenuto, per non rischiare di giungere a un “punto di non ritorno” che comporterebbe gravi conseguenze per ciò che concerne la sicurezza alimentare e ambientale globale, senza trascurare, è stato ribadito, la tragedia degli incendi diventata, è scritto nella lettera, «una crudele tradizione» che affligge le comunità, spesso innescati esclusivamente per speculazioni economiche.

«Le pandemie — spiegano nella missiva i leader indigeni — sono solo un sintomo di un pianeta malato che ha bisogno di guarire. È urgente ripristinare l’equilibrio e l’armonia tra gli esseri umani e la foresta pluviale amazzonica», fermando un disboscamento che ne causerebbe in breve tempo l’estinzione. «Abbiano solo dieci anni per farlo: sarà difficile ma non impossibile». È quasi grottesco, si afferma in conclusione del documento, che nell’area definita “il polmone del pianeta” l’aria sia irrespirabile a causa del fumo che rende quasi invivibile quello che dovrebbe essere un paradiso terrestre.

Nel corso del forum sono stati inoltre presentati nuovi dati sull’evoluzione della pandemia tra i popoli amazzonici e sui progressi dell’assistenza umanitaria, esortando le ong internazionali che si occupano di ambiente ad «aumentare notevolmente i loro contributi finanziari per fronteggiare l’emergenza, non solo per un motivo morale ma pure per un’esigenza strategica di sicurezza climatica e alimentare». Illustrati anche due studi comparativi riguardanti la proprietà di questa terra: nella gran parte dei Paesi su cui si estende l’Amazzonia, sono compresi tra il 10 e il 93 per cento i territori indigeni, le comunità locali e la popolazione afro-americana non ancora riconosciuti e che insieme rappresentano almeno novanta milioni di ettari, territori chiave per la conservazione della biodiversità.

di Rosario Capomasi