· Città del Vaticano ·

Il senso religioso in Jack Kerouac in un libro di Luca Miele

«Beat» ovvero beati

 «Beat» ovvero beati  QUO-005
08 gennaio 2021

Hanno segnato la cultura, la letteratura e la società americana ed europea per un paio di decenni, eppure gli scrittori beat non sono mai abbastanza studiati o ricordati. A partire dal nome, che significava “abbattuto”, ma anche “beato”, in quanto il termine è alla radice di “beatitudine”. E il versante spirituale di quel gruppo di autori di cui i più noti restano Gregory Corso, Allen Ginsberg e Jack Kerouac, è forse quello che è rimasto più in ombra, specialmente negli anni Cinquanta e Sessanta, quando la loro vis provocatoria concentrava tutta l'attenzione, a discapito del messaggio.

Quando la Mondadori pubblicò nel 1958 I sotterranei di Jack Kerouac cinque anni dopo l’edizione originale americana, il romanzo fu immediatamente sequestrato dalle librerie e processato per oscenità, per poi essere assolto grazie alla «bellezza lirica del linguaggio» che ne smentiva la percezione pornografica dei detrattori. Nonostante si fosse risolto positivamente, il caso lasciò un segno importante nell’editoria dell’epoca, e quando Howl (“Urlo”) di Allen Ginsberg stava per arrivare al pubblico italiano (con il titolo di Un jukebox all’idrogeno) nella traduzione di Fernanda Pivano, negli uffici della Mondadori, spaventati dal caso Kerouac, tennero inedito il testo per tre anni prima di darlo alle stampe nel 1966. In uno degli episodi più ridicoli del moralismo culturale del dopoguerra, il libro uscì con una sfilza di puntini di sospensione che sostituivano la traduzione di tutti i termini relativi al sesso.

Oggi, dopo quasi settant’anni dalle prime espressioni letterarie beat, la nostra percezione della “sconcezza” è profondamente mutata, e questi, come molti altri scrittori, sono, come si suol dire, felicemente sdoganati. Al punto che possiamo anche affrontarli dal punto di vista della loro religiosità. È quello che ha fatto, con una precisione impareggiabile, Luca Miele nel suo Il Vangelo secondo Jack Kerouac (Torino, Claudiana, 2020, pagine 158, euro 14,50), un tour de force appassionato e informatissimo nei meandri della mente e dell’opera dell'autore di Sulla strada. Ma, se quest’ultimo è il romanzo più noto di Kerouac, in realtà lo scrittore fu prolifico produttore di testi narrativi degni di essere riletti e apprezzati ora che ci avviciniamo al centenario della sua nascita (che sarà celebrato il prossimo anno). Passando dal succitato I sotterranei a romanzi quali I vagabondi del Dharma, Visioni di Cody, Visioni di Gerard, Angeli di desolazione, Tristessa e, ovviamente il suo capolavoro del 1957 Sulla strada, Miele mescola la competenza dello studioso alla passione dell’ammiratore e ci regala un libro che può essere sia un valido aiuto a comprendere quella «straordinaria confusione di contraddizioni» che era Kerouac secondo la sua autodefinizione, sia una meditazione su letteratura e religione che parte da un autore specifico, ma ci porta verso quesiti universali. Dalle pagine di Miele si deduce subito come Kerouac non sia stato solo il cantore del sesso e dell’ebbrezza etilica, ma anche e fondamentalmente un uomo alla ricerca di Dio. Anzi, buona parte della sua produzione letteraria è proprio una sfida che si configura come un tentativo di “scriverLo”, di scrivere Dio in una continua tensione tra parola e silenzio rotta dall’autore che chiama Dio a svelarsi. In questo modo la prossimità e la lontananza, il corpo e lo spirito, la beatitudine e la croce diventano tappe speculari e imprescindibili per sondare la propria dimensione spirituale e dialogare con il divino. Tanto che, in questo catalogo di doppi manca solo la dicotomia Strada/Dio: è proprio nel tentativo di santificare il mondo partendo dai più profani che Kerouac trasfigura l’immagine forse più presente nei suoi scritti, quella che si è poi facilmente applicata a una certa cultura americana del movimento, vedendovi la presenza di Dio. Polimorfa e benedetta, la sua non è una strada qualunque, bensì La Strada. E a essa, alla «lusinga del movimento», questo libro dedica molte acute pagine. Ma la lista dei rimandi religiosi nell’opera di Kerouac è sconfinata, ci avvisa l’autore di questo saggio, ma, impavido, si impegna a stilarla pressoché al completo. E così facendo non può, per esempio, non prendere in considerazione il periodo buddista dello scrittore, chiedendosi se la compresenza nel suo cuore di cristianesimo e di buddismo consista in due parallele che non si toccano mai o nel «frutto della stessa radice». Kerouac sarà, in effetti, in grado di cucire le due grandi religioni, «affollando nello stesso spazio estatico gli angeli e la Mente, il paradiso e la reincarnazione», come scrive Miele.

Se il buddismo fu un’infatuazione limitata negli anni e figlia dei tempi (buona parte dei beat ne fu attratto), la religiosità di Kerouac scorre su binari più prossimi al cattolicesimo di stampo francescano. Come scriveva egli stesso, «beat sta per beato, essere in uno stato di beatitudine, come san Francesco, cercando di amare tutte le forme di vita, cercando di essere assolutamente sinceri con tutti, praticando la tolleranza, la gentilezza, coltivando la gioia del cuore. Come si può fare una cosa del genere nel nostro pazzo mondo moderno di molteplicità e milioni? Praticando un po’ di solitudine, svignandosela da soli ogni tanto per far provvista del tesoro più prezioso che esista: le “vibrazioni della sincerità”. Distanziamento sociale ante litteram, sotto forma di ricerca di sé e del disseminarsi di Dio nella creazione. E la coincidenza tra strada e Dio passa attraverso i personaggi più enigmatici e contraddittori. Dean Moriarty è la strada. Tristessa, la maddalena messicana dell’omonimo romanzo, è strada anch’essa. Sono gli angeli che affollano questo mondo malinconico e amatissimo, dolorante e gioioso al tempo stesso.

Ma tutto tende verso lo stesso punto, poiché «niente è mai accaduto, fuorché Dio» come scriverà Kerouac in un libro di viaggi, proprio a indicare che il movimento, il frenetico vagare suo e dei suoi personaggi non è altro che la ricerca dell'Assoluto. E se a lettori superficiali può essere apparsa sconveniente, questa letteratura mette in scena un costante tentativo di afferrare Dio. E trascinarlo in terra, come ebbe a scrivere l’autore nei suoi diari, Un mondo battuto dal vento. Ora, anche grazie a Miele, ci è chiaro di quale vento si trattasse.

di Alessandro Clericuzio