· Città del Vaticano ·

Società e politica australiane interpellate dalle indicazioni del Pontefice

In nome di una comune umanità

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04 gennaio 2021

«Che ogni uomo si comporti come un fratello verso un altro uomo, è una dottrina che mi si addice perfettamente. Il cuore che sa avere pietà per i dolori degli altri. Oh, questa è la mia religione».

Così recitavano i versi di una canzone tradizionale del bush australiano, pubblicata dal «Bulletin» nel 1905. Lo storico Russel Ward citò questa canzone nel libro ormai classico The Australian Legend (1958), come esempio evidente di un valore centrale della cultura australiana, espresso dal termine mateship.

Un termine che racchiude l’importanza della lealtà, dell’uguaglianza e soprattutto dell’amicizia. Ancora oggi quando un estraneo ci si rivolge nel saluto chiamandoci mate, tutti i muri sociali, culturali ed etnici che ci dividono sembrano dissolversi in una breve epifania della nostra comune umanità, alla ricerca disperata di amicizia e fraternità.

Anche per questo l’ultima enciclica di Papa Francesco, incentrata sul tema della fraternità universale, può parlare direttamente al cuore e alla mente di tutti gli australiani.

Certo, come tutti i valori, anche quello del mateship si è manifestato soprattutto sul piano degli ideali, più che su quello della prassi dei rapporti inter-personali o delle azioni politiche. La federazione nata nel 1901 non era basata sui valori del mateship, ma sulla White Australia policy che lasciava ai margini della moderna nazione sia gli abitanti originari del continente sia gli immigrati coloured. O meglio, il mateship rimaneva ufficialmente un valore primario e condiviso, ma dai confini ben ristretti ed esclusivi di interi gruppi umani, tra cui le donne che non si riconoscevano nelle sue connotazioni militaristiche o maschilistiche.

Ancora oggi, più di un secolo dopo la nascita della Federazione, milioni di bambini australiani cantano a scuola i versi dell’inno nazionale che promettono «a coloro che sono venuti attraverso i mari», «illimitate pianure da condividere». Lo cantano con ingenua fiducia nei valori di uguaglianza e giustizia per tutti che sentono come tipicamente aussie, ma il loro canto gioioso non raggiunge i loro coetanei afghani, indonesiani o pakistani rinchiusi da anni con le loro famiglie nei centri di detenzione su isole sperdute del pacifico, colpevoli di aver sognato di raggiungere quelle infinite e ricchissime pianure.

Questo divario fra gli ideali professati come centrali alla propria cultura o religione e il loro “tradimento” sul piano personale o politico naturalmente non riguarda solo l’Australia: quante persone o gruppi umani vivono in assoluta coerenza con gli ideali apertamente professati?

Ma i riferimenti dell’enciclica papale all’importanza della riconciliazione, che deve basarsi sul perdono mai disgiunto dalla memoria storica dei torti subiti dalle vittime; il richiamo alla solidarietà verso i più vulnerabili, inclusi coloro che cercano condizioni di vita più dignitose in un’altra terra: tutto ciò dovrebbe offrire spunti di riflessione profonda anche agli australiani.

Nonostante i molti progressi compiuti, ancora oggi gli aborigeni sono eccessivamente rappresentati nelle statistiche sullo svantaggio sociale, mentre le sofferenze fisiche e psicologiche dei richiedenti asilo a Nauru o in Papua Nuova Guinea non scalfiscono l’apatia e l’indifferenza di buona parte della popolazione.

Sarebbe però ingiusto caratterizzare le attitudini australiane verso le persone bisognose di rifugio e solidarietà solo attraverso il prisma delle politiche bipartisan che impediscono ai boat people di attraccare sul continente. L’Australia mantiene un generoso programma migratorio che ha consentito a migliaia di persone di trovarvi sicurezza e opportunità impensabili nei loro Paesi d’origine.

Alla recente apertura verso parti del mondo meno rappresentate nei programmi migratori precedenti, come il Medio Oriente e l’Africa sub-sahariana, e alla solidarietà espressa verso il terrorismo islamico da nuovi immigrati in Australia, è legato il riaccendersi di una mai sopita xenofobia in alcuni settori della popolazione, insieme all’aggravarsi di tendenze islamofobe. Proprio dal suolo australiano è partito Brenton Harrison Tarrant, il ventottenne che il 15 marzo del 2019 massacrò 51 fedeli della moschea di Christchurch in Nuova Zelanda, pubblicizzando in diretta sui social media il suo gesto efferato.

L’estremismo delle ideologie identitarie o di supremazia bianca che ha armato la mano di Tarrant resta molto minoritario nella società e nella politica australiana. Tuttavia, è innegabile che il richiamo di Bergoglio ai rischi di una «mentalità xenofoba, di chiusura e di ripiegamento su se stessi» non è privo di rilevanza per la società.

Molti leader australiani potrebbero meditare sulla condanna del Papa di una politica dagli orizzonti limitati, ossessionata dal consenso elettorale e guidata dai sondaggi di opinione. Da un lato il proverbiale pragmatismo aussie e il sospetto innato verso le grandi ideologie hanno preservato questa nazione dalle guerre civili, dai totalitarismi e dalle aspre contrapposizioni ideologiche che hanno insanguinato il “vecchio mondo”. Dall’altro lato, sono innegabili i limiti di un certo modo di fare politica che insegue solo risultati a breve termine, lontana da quegli ideali di apertura alla fraternità universale e ai bisogni dei più deboli, auspicati dal Pontefice nell’enciclica.

Del resto, anche una nazione mediamente ricca e privilegiata come l’Australia, in cui alcune delle piaghe antiche del sottosviluppo descritte dall’enciclica sono state sconfitte da tempo, non è immune da alcuni dei mali stigmatizzati dal Papa.

L’immagine brillante di benessere materiale, di grande sviluppo tecnologico, di pulizia, ordine e senso civico, nasconde solo a occhi distratti o passeggeri altri aspetti meno piacevoli ma reali, che offrono un quadro ben più complesso di quello espresso dagli epiteti popolari di Australia felix o Lucky Country.

Certamente, il modo in cui l’Australia e la sua vicina Nuova Zelanda sono riuscite ad affrontare la pandemia del covid-19, hanno confermato che tutto sommato da queste parti si vive molto meglio che in tante altre parti del mondo. Ma nemmeno questa terra è risparmiata da quei fenomeni disgreganti del vivere sociale che la pandemia ha esacerbato e su cui si sofferma Fratelli tutti.

Anche in Australia sono ormai evidenti le gravi conseguenze di un crescente individualismo e di un modello economico che ha avvantaggiato gli ultra-ricchi aumentando la precarizzazione e la fragilità delle classi più deboli.

Una nazione in cui l’88% delle persone utilizzano internet regolarmente ha di certo beneficiato di tecnologie che hanno ridotto o annullato quella “tirannia della distanza” che ha segnato, spesso negativamente, la vita australiana. Ma, allo stesso tempo, l’unica citazione esplicita dei vescovi australiani nell’enciclica si riferisce proprio agli effetti più deleteri dell’uso delle nuove tecnologie digitali, in forte crescita anche down under: l’ossessione narcisistica alimentata dai social media che creano l’illusione di una fragile “connessione”, povero sostituto dei profondi legami di amicizia e fraternità; le minacce alla privacy; la fruizione di immagini pornografiche e violente anche da parte di giovanissimi; l’odio, l’insulto e l’aggressività al posto del dialogo e dello scambio civile di opinioni contrastanti; infine, l’influenza deleteria che la diffusione di notizie false può avere sul processo democratico.

Anche per questo, la saggezza con cui il Papa affronta il tema dell’impatto delle nuove tecnologie ha molto da offrire a quei politici, educatori e genitori australiani che si pongono il problema di come far sì che i progressi tecnologici siano al servizio dei bisogni più profondi della persona umana e non degli interessi di oligarchie e potentati economici creatori di nuovi tipi di schiavitù mentale e alienazione.

di Stefano Girola