· Città del Vaticano ·

PER LA CURA DELLA CASA COMUNE
A Torino l’esempio di una azienda di cosmetici

Un’impresa diversa
si può fare

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02 gennaio 2021

«Oggi possiamo dirlo: essere sostenibili non è una questione per pochi intimi. Veniamo da una mentalità che diceva: “Il profitto al primo posto. E stop”. Bene, quella prospettiva è finita. Sepolta. Perché fare profitto per se stesso sta provocando morti e feriti, letteralmente. Non si può pensare alle imprese come a soggetti che fanno soldi a palate passando sopra la vita della gente, per poi essere pronti a destinare qualche briciola alle associazioni benefiche che, a loro volta, vanno a chiedere soldi allo Stato per sanare quelle ferite che le stesse aziende avevano causato».

Marco Piccolo non è un imprenditore come gli altri. Nella Reynaldi, l’azienda di famiglia («facciamo cosmetici per conto terzi, i nostri clienti sono i più grandi marchi del settore»), sede a Pianezza, due passi da Torino, le idee di Laudato si’ non sono pii desideri sganciati dalla realtà, ma solidi ancoraggi che innervano un’azienda socialmente e ambientalmente responsabile, già da anni. «Non c’è voluta la bellissima enciclica di Papa Francesco perché capissimo che abbiamo un solo pianeta, e dobbiamo preservarlo — annota Piccolo —. Oggi tutti parlano di questi temi (ambiente, sostenibilità, rispetto del creato), ma noi da 8 anni abbiamo un sistema di raccolta delle acque di produzione che non ci fa sprecare neppure un litro d’acqua! Abbiamo implementato questa scelta perché, da imprenditori, abbiamo investito su qualcosa che poi ci è tornato utile: 70 mila euro di investimento che, nel giro di qualche anno, sono stati ammortizzati da bollette molto meno costose».

Insomma, la sostenibilità ambientale e sociale garantisce risultati. «Oggi sono referente per la sostenibilità all’interno di Confindustria Piemonte, e vedo che qualche imprenditore inizia a capire l’importanza della questione. Alcuni comprendono che il mercato stesso domanda di essere sostenibili. Altri “dormono”. Ma nei prossimi 10 anni chi non sarà sostenibile verrà espulso dal mercato! Oggi sono i consumatori che chiedono a gran voce prodotti sostenibili». Attenzione, però: il greenwashing, la strategia di darsi una “ripulita” di verde, è sempre in agguato nel mondo delle corporate: «Spesso nelle aziende l’ufficio sostenibilità viene incorporato nel marketing: essere sostenibili diventa una leva per fare ulteriori affari — è il j’accuse di Piccolo —. Per me invece è tutt’altro, è un valore umano: vuol dire generare un circolo virtuoso nel mondo cui appartengo. Significa, in fin dei conti, capire che si vive una volta sola, e questa vita non va sprecata. Sempre più la sostenibilità sta diventando un valore per le aziende, ma ci sono ancora molti passi da fare. Se un’impresa non ha la sostenibilità tra i suoi obiettivi, sia le banche che i mercati finanziari non le concedono il credito né fanno investimenti in essa».

Per la Reynaldi sostenibilità significa anche dar vita ad un’azienda «umana», in cui la persona sia al centro e non solo un meccanismo di un sistema. Perché questa scelta? «Semplice, non sono due persone, ma una sola — risponde Piccolo —. Non sono una persona in parrocchia, nei gruppi giovanili dove sono educatore (parrocchia di S. Giuseppe a Torino), quando vado in monastero tre volte all’anno per “ricaricarmi”, e un’altra persona quando entro in ufficio oppure nello stabilimento. La sfida di un imprenditore credente oggi è trovare l’unità umana tra quello che dice di voler essere e quello che fa. Certe volte rischiamo che chi va a messa sia un’altra persona da quella che ha a che fare con i dipendenti (io preferisco chiamarli collaboratori: anche le parole hanno un peso). Personalmente, mi interesso di chi lavora con me, quali problemi ha, come va con i figli, che difficoltà si vivono in casa…Se non c’è una visione umana, l’impresa si trasforma in una catena di produzione in cui ogni persona è un pezzo di un ingranaggio. Ma questo non è lavorare, vuol dire diventare schiavi».

Alla Reynaldi dunque piccoli gesti creano un clima di lavoro più umano: «Alle 17 si chiude: voglio che una lavoratrice possa stare a casa a giocare con il figlio o andare al parco con la bambina, oppure leggersi un libro. Mangiamo insieme, manager e dipendenti; la macchina del caffè è gratuita; festeggiamo i compleanni dei lavoratori». Piccolo sembra crederci sul serio: il profitto non è l’unico obiettivo per cui lavorare: «Il profitto è una conseguenza: se c’è un clima positivo in ufficio e in linea di produzione, i risultati vengono da soli. Lo scorso anno abbiamo fatto +47% di fatturato, arrivando a 6 milioni di euro, quest’anno +25%. E se otteniamo utili, è giusto che vengano ripartiti tra chi lavora: per questo abbiamo assegnato il 30% a chi è impiegato in azienda, il 30% ai soci e il 30% reinvestito nella società. Io non ho una Maserati o una Bentley, ma una Fiat vecchia di 14 anni. Non posso pensare di andare in giro con il macchinone sapendo che un mio collaboratore non ha i soldi per pagare i libri di scuola del figlio».

Parrebbe fantascienza, e invece funziona: «Avere una visione di questo genere paga, alla lunga — sottolinea l’imprenditore torinese —. La nostra azienda è nata nel 2000 con una persona; due anni fa eravamo 28 persone, oggi siamo 70. Abbiamo iniziato con un ufficio, adesso lo stabilimento è su 7500 metri quadrati. Mio fratello ha la divisa di operaio e lavora nella linea di produzione insieme a tutti gli altri. Ci sono imprenditori che non entrano neppure nel loro stabilimento. O si rema tutti dalla stessa parte o si va a sbattere. Non ha senso far lavorare gli altri in maniera disumana, per poi trarre solo il proprio profitto».

Piccolo si stupisce…dello stupore che la sua visione d’impresa suscita. Come quella volta che ad un convegno di imprenditori, dopo che aver raccontato queste cose, è stato avvicinato da un grosso imprenditore, proprietario di un’azienda da 2 mila dipendenti, che gli ha chiesto di prendere un caffè insieme. «Marco, ma tu dormi la notte?». «Benissimo». «Io sono anni che non chiudo occhio per le responsabilità». «Ma come si fa a vivere così? — annota Piccolo —. A volte si guardano imprenditori di successo pensando che siano anche “persone” di successo, e poi si scoprono vuoti di questo genere! Molto meglio un idraulico che ha trovato il senso della sua vita nel suo lavoro (con tutto il rispetto per gli idraulici!) piuttosto di tanti turbo-capitalisti che sfruttano gli altri, senza chiudere occhio di notte per la paura di perdere tutto». L’esempio dice tutto: «Ho saputo di un’azienda il cui titolare gira in Bentley, mentre un dipendente era assunto dal 2006 tramite una cooperativa, così era più facile licenziarlo in caso di crisi. Ma come si fa ad avere una faccia tosta simile?».

La visione cristiana della vita di Piccolo innerva il suo modo di lavorare: «Io non mi concepisco come un capo che controlla, non ho una segreteria personale. Porto il caffè ai colleghi: Gesù non era quello che lavava i piedi ai suoi amici?». Anche sulla Chiesa Marco Piccolo ha qualcosa da dire e qualche sassolino da togliersi: «Io ho studiato economia e non teologia, quindi non mi metto a predicare. Volentieri sto dando una mano alla mia diocesi, insieme ad altri imprenditori, sul piano economico e finanziario. Ma non come è possibile che chi ha studiato solo teologia si occupi di denaro e finanza? Servono competenze, sennò si fanno disastri».

Piccolo fa parte del gruppo di aziende che si rifanno all’economia di comunione, di cui è diventato ambasciatore: «Quando ascolto le lezioni di Leonardo Becchetti, Luigino Bruni e Stefano Zamagni mi sento a casa. E lo trovo bellissimo. Anzi, posso dire che quando ascolto questi economisti, ogni tanto mi sorprendo a dirmi: “Ma questo noi in Reynaldi lo facciamo già!”». L’impresa di Piccolo è qualificata come «società benefit», cioè una forma societaria per cui il profitto non è tutto: l’identità aziendale è costituita anche dal valore sociale e ambientale che essa genera.

«Io lo ripeto spesso ai giovani: “Oggi voi andate a vestirvi in negozi dove le merci sono sottocosto, perché avete pochi soldi. Ma quando ne avrete un po’ di più, non penso sarete molto contenti di andare a comprarvi un paio di scarpe che costano poco perché le ha fatte un ragazzino di 15 anni in Turchia”. Pensiamoci: qualche anno fa era normale, per le signore, comprarsi una pelliccia di visone. Oggi chi lo fa più? La sensibilità è cambiata. I nostri genitori non avevano la sensibilità ecologica che abbiamo oggi. I cambiamenti climatici ci toccano sul vivo, non sono più astratti: quando andiamo a fare il bagno nel mare Adriatico e usciamo ricoperti di mucillagini, ci rendiamo conto che l’inquinamento non è una questione teorica, ma la tocchiamo letteralmente con mano! Quando scoppiò lo scandalo-mucillagini, abbiamo assistito al crollo del consumo di detersivi normali a favore di quelli biodegradabili. Finita l’emergenza, è tornato tutto come prima. Ecco, io credo che dobbiamo prendere sul serio la questione ambientale».

di Lorenzo Fazzini