· Città del Vaticano ·

30 anni fa la morte di Renato Rascel

Quanta bellezza nell’esser piccoli e leggeri

Renato Rascel nei panni di una delle sue più celebri macchiette, «il corazziere»
02 gennaio 2021

Renato Rascel scherzò per una vita sulla propria bassa statura. “Il piccolo corazziere”, “Nel mio piccolo”, “Il corriere del piccolo”, “Il piccoletto”, “Ninna nanna piccoletta”… Quanta fantasia si mosse grazie all’autoironia su questa caratteristica fisica: spettacoli, libri di favole, canzoni, e anche il nome di una compagnia di prosa, «Il teatro del piccolo». Chesterton, l’inventore di Padre Brown, il prete-detective al quale Rascel all’inizio degli anni Settanta diede mirabilmente corpo in una splendida miniserie televisiva, annotò: «C’è un grande uomo che fa sentire ogni uomo piccolo. Ma il vero grande uomo è colui che fa sentire tutti grandi». Ecco, indipendentemente dalla sua modesta corporatura, l’artista romano (anche se, figlio d’arte, nacque a Torino durante una tournée teatrale dei genitori nel 1912) apparteneva alla seconda categoria di persone individuate dallo scrittore britannico, che stimava pure chi sa sorridere dei propri difetti: «La ragione per cui gli angeli sanno volare è che si prendono con leggerezza». Piccolo-grande attore, autore e interprete di canzoni, Rascel, di cui oggi ricorre il trentesimo anniversario della morte, accompagnò la vita del Paese per mezzo secolo incarnando con leggerezza la propria “grande piccolezza” artistica in un multiforme assortimento di personaggi e traducendola con maestria non soltanto nei linguaggi dell’avanspettacolo, della rivista e della televisione, ma anche in quelli del teatro e del cinema d’autore. Nelle surrealistiche macchiette del Corazziere, del Toreador, dello Scettico, di Napoleone e Pancho Villa, nei protagonisti delle commedie musicali — la galleria di soggetti generati dall’estro creativo della “ditta” Garinei e Giovannini —, nelle pièce di autori come Plauto, Beckett e Ionesco, nelle pellicole dirette da Lattuada, Steno, Eduardo De Filippo, De Sica, Soldati, Risi, lo stile del poliedrico Rascel mantiene sempre un nonsoché di sperdutamente fanciullesco, un’ultima eco di tenero spaesamento, così come quell’inconfondibile nota di scanzonatezza e umorismo tipica di ogni romano (e lui era figlio di romani da più di sette generazioni). «Dove non c’è umorismo, non c’è umanità; dove non c’è umorismo… c’è il campo di concentramento». Non è difficile immaginare che Rascel condividesse questa osservazione di Eugène Ionesco, della quale era verosimilmente a conoscenza, vista la sua frequentazione con l’opera del drammaturgo rumeno. Nella Città Eterna — cui dedicò Arrivederci Roma”, canzone-culto conosciuta in tutto il mondo — aveva incominciato la sua carriera prestissimo: già da bambino, quando si trovò a far parte del coro delle voci bianche della Cappella Sistina, diretto da Lorenzo Perosi, e a recitare nelle rappresentazioni teatrali organizzate, nel rione Borgo, dai religiosi della scuola elementare Pio x , nella quale si appassionò anche al calcio: in quei primi anni ci sono in nuce tutti gli elementi che sostanzieranno il suo lavoro artistico, e c’è pure l’inizio della passione per il pallone e per l’ a.s . Roma, la quale «non si discute, si ama», secondo un famoso aforisma comunemente attribuitogli. L’ultima sua apparizione in un film risale al 1977, quando interpretò il cieco nato nel Gesù di Nazareth di Zeffirelli. In quel cameo di pochi minuti, visibile su internet, Rascel mostra ancora una volta quanta bellezza c’è nell’essere piccoli e leggeri.

di Paolo Mattei