· Città del Vaticano ·

Nella serie televisiva «Euphoria» di Sam Levinson

Adolescenti in caduta libera

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02 gennaio 2021

C’è ancora qualcosa di cui sorprendersi nella sceneggiatura della nostra esistenza? Il copione è il più delle volte già previsto o prevedibile, e se di sorprese si può ancora parlare, si tratterà di quei “casi” imprevisti della vita che — per fortuna — continuano a spiazzarci rispetto al solito quotidiano. Tuttavia, per quanto ci sorprendano, quei casi portano già inscritto, quasi inciso dentro di loro, il destino più tristemente prevedibile che ci sia, vale a dire la loro fine, il finire di tutto. Non è forse questo il motivo per cui tante volte cerchiamo di proteggerci rispetto ai rischi, di assicuraci rispetto ai cambiamenti, di difenderci rispetto al caso? Il fatto è che ogni persona, ogni io, è un imprevisto rispetto alla cieca necessità di una natura impersonale; e una delle più grandi fatiche del nostro essere al mondo è proprio quella di regolarizzare il caso, di esorcizzare in qualche modo la misteriosa “gratuità” del nostro esserci. Una gratuità troppo grande per essere accettata, troppo incomprensibile da sopportare, tanto che molto spesso la scambiamo per un’“assurdità”. Una vita assurda, a cui cioè non si possa riconoscere un senso, una ragione, uno scopo.

L’imprevisto che noi siamo — e che esplode attraverso i diversi imprevisti che ci capitano — cerca sempre la sua ragione. Ma il problema è che noi non possiamo mai semplicemente appiccicare una giustificazione al caso o sussumere ciò che non era preventivabile sotto le nostre categorie generali. Perché ci sia senso bisogna che sia proprio l’imprevisto a farcelo vedere, e se questo non avviene il nostro “caso” diventa come una voragine che non potremo mai colmare e che, anzi, rischia di inghiottire noi stessi come in un buco nero.

È quello che succede a Rue Bennett, la sbandata protagonista di Euphoria, acclamata (e contestata) serie televisiva statunitense creata nel 2019 da Sam Levinson per Hbo. In essa si descrive, fino al dettaglio più scabroso, la vita di alcuni adolescenti in caduta libera nel vuoto determinato dall’assenza o dall’inconsistenza degli adulti e dalla confusione sulla propria identità di genere. Giovani liceali che pensano di dover “tentare” la propria vita attraverso le esperienze più hard della droga e del sesso. Non si tratta tanto delle classiche “vite bruciate” dei diciassettenni in crisi, quanto del bruciare se stessi come unica possibilità di avere una vita propria, una vita vera. Insomma, uno dei sempre più frequenti e compiaciuti teen dramas degli ultimi anni, in cui gli adolescenti diventano lo specchio impietoso del mondo e della cultura nichilista ereditata dai loro “padri”.

Ma in Euphoria accade qualcosa di insolito. Il bruciarsi dell’esistenza non estingue, ma al contrario aumenta l’arsura del vivere, e riaccende il desiderio — spesso contraffatto ma inestinguibile — di un’acqua pura che soddisfi veramente la sete. È quanto accade nell’episodio fuori serie trasmesso il 6 dicembre 2020, più di un anno dopo la fine della prima stagione e in attesa della seconda, rimandata a causa dell’epidemia da covid-19. Si tratta di una specie di drammatico e insieme delicatissimo regalo di Natale fatto agli spettatori, in cui ciò che sembrava bruciato, torna a riaccendersi, ma non per consumarsi definitivamente, bensì per ricominciare, forse come un nuovo inizio.

In una malinconica vigilia di Natale, mangiando pancake in una tavola calda semideserta, puro stile Hopper, la diciassettenne Rue, abbandonata dalla sua amica e amante Jules, e in piena ricaduta nella dipendenza da stupefacenti, arriva a scoprirsi del tutto disarmata di fronte ad Alì, un cristiano convertitosi all’Islam, ex tossicodipendente che le fa da sponsor nel tentativo di ripulirsi e raggiungere la sobrietà. Lo sguardo imbambolato della «strafatta» Rue cede lentamente, durante il dialogo, a una strana consapevolezza del fondo della questione. Dapprima fingendo che va tutto bene e di aver raggiunto «un equilibrio fantastico», senza «affidarsi a nessun altro per avere quella felicità». Per poi arrivare ad ammettere che le cose non stanno affatto così, che lei in realtà non voleva proprio smettere di drogarsi, perché non ne aveva un motivo sufficiente (in fondo «chi se ne importa!»), e a confessare che «forse la droga è l’unico motivo per cui non mi sono suicidata». Quando era presente a se stessa, infatti, «continuava a rimuginare» su tutte le cose che ricordava e su quelle che non avrebbe voluto ricordare.

Ma con ciò la ragazza si mette in gioco inaspettatamente di fronte al suo stesso destino, di fronte a Dio, svelando così il rovello segreto del suo pensiero: «Alì, io non credo in Dio», una parola che non sopporta, perché le puzza come una giustificazione consolatoria rispetto ai casi assurdi della sua vita. Come la morte per cancro del padre, di cui non è possibile trovare alcuno scopo, dal momento che il vero scopo della sua vita era proprio quello di curarsi delle sue figlie, che è invece costretto a lasciare. Le cose succedono perché succedono, dichiara Rue con apparente cinismo: la loro unica motivazione sarebbe quella di essere senza ragione. Il loro unico senso sarebbe il nulla, «e questo è tutto!». Ma a poco a poco emerge la vera “ragione” dell’irrazionale. Una Rue sconsolata ricorda il rapporto intollerabile con la madre, la violenza di un pugno che lei, sua figlia, le aveva sferrato in faccia, e addirittura la minaccia di ucciderla con un pezzo di vetro. Quello che ho fatto a mia madre, confessa, «è imperdonabile (...). Ma io sono fatta così». Al che Alì incalza: «E ti sta bene?». «No!» ribatte Rue. «Allora vuol dire che non sei fatta così!». E quando la ragazza arriva a dire, con una strana sincerità, che non ha intenzione di vivere ancora a lungo in un mondo orrendo come il nostro, in cui per rabbia «tutti vogliono fare in modo che tutti gli altri non sembrino umani», Alì la provoca: «Come vuoi che tua madre e tua sorella ti ricordino?». Dopo un lungo, densissimo silenzio, in cui sembra che tutto il filo della sua vita venga in superficie, Rue afferma: «Come una che si è impegnata tanto a essere come non poteva essere». È esattamente questa impossibilità a essere come si vorrebbe essere, il fuoco del problema di Rue, una cenere che riprende fiamma. E se a questo punto la sceneggiatura fa dire ad Alì che lui invece ha fiducia in lei, perché in fondo è Dio stesso che ha fiducia in Rue, questo ci sembra ancora troppo poco, e suona anche un po’ retorico. Un desiderio di redenzione («tu devi credere nella poesia», «inventarti qualche Dio», come le suggerisce Alì), ma non ancora un essere salvati realmente, ora, così come si è. Per questo è assolutamente geniale la conclusione, affidata ad altre parole, in un latino che suona con un incredibile effetto di straniamento — di sorpresa, appunto — rispetto al già saputo: finita la sobria cena della vigilia di Natale, sotto una pioggia battente, Alì riaccompagna Rue in macchina, mentre parte l’Ave Maria di Schubert: «Ave Maria / gratia plena / Dominus tecum...». Se il cuore degli umani custodisce in sé un inconfessabile struggimento per l’impossibile — e cioè che possa essere perdonato l’imperdonabile —, è solo l’Impossibile stesso che può suscitare questo struggimento, per compierlo.

Ha scritto Agostino in un passo fulminante del De libero arbitrio ( iii 3-7), «se essere felice fosse in mio potere, io sarei già certamente felice. Anche ora voglio esserlo, ma non lo sono, perché non io, ma Lui mi rende felice».

di Costantino Esposito