Le disturbanti teologie
Siamo in un tempo di incertezza, non serve ricordarlo. Nell’ovvio, però, non tutto va da sé. Tra ciò che non possiamo dare per scontato c’è la nostra postura nel flusso degli eventi. Seppure muta, essa non smette di dare voce all’esperienza. Seppure non vista, essa continua a dare forma alla storia. Seppure ignorata, essa insiste a generare saperi. Accade perciò che le parole e le pratiche si vanno trasformando in modo non sempre trasparente e condiviso: non sappiamo bene da dove vengano né tantomeno che effetto ci stiano facendo.
Uno dei punti d’osservazione di queste trasformazioni ruota attorno alla vita dei corpi e alle sue narrazioni. Le forme in cui sono regolate le distanze tra i corpi, infatti, producono sempre teorie, immaginari, discorsi e abitudini. Il Covid-19 ha toccato queste distanze, accorciate a volte fin troppo nelle case e dilatate al massimo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei negozi, nelle piazze.
Nelle chiese sono stati assunti i protocolli di sicurezza previsti, ma c’è nell’aria una strana commistione tra la paura del contagio e la paura che il popolo di Dio possa vivere bene la fede anche senza celebrazioni in presenza. Comunque sia, proprio perché c’è un cambiamento importante riguardo la distanza tra i nostri corpi, accade qualcosa di profondo e di indecifrabile nel nostro vissuto, toccato nel cuore della sua vocazione relazionale. Potremmo dire sinteticamente che è il nostro immaginario della prossimità a ritrovarsi convocato e scosso. Non è facile riordinare i pensieri, le parole e le azioni. Si è aperto un conflitto interpretativo su che cosa davvero significhi vivere relazioni buone in un tempo in cui le tensioni economiche, sociali e politiche sono sempre più esasperate. È difficile anche prendere sul serio e onorare la vulnerabilità che ci contraddistingue tutte e tutti, smascherando le molte gerarchizzazioni con cui abbiamo convissuto da sempre. Nelle comunità cristiane, la stessa questione si riassume efficacemente nel termine fraternità, categoria che non può immunizzarsi dalle tensioni del mondo che abitiamo insieme, come dà testimonianza anche l’ultima enciclica di papa Francesco.
In ascolto delle donne
Perché quest’occasione di rielaborazione della storia non vada sprecata, tuttavia, occorre ascoltare anche le donne. Non in generale: le donne non sono detentrici del vero (né del falso) per natura. Si tratta piuttosto di ascoltare le molte donne che – tra infinite perturbazioni – portano il discorso sul senso della differenza sessuale, sulle differenze in cui essa storicamente si declina e sugli immaginari che le accompagnano.
Sono le donne che hanno imparato per esperienza a diffidare dei discorsi universali, neutri, astorici e disincarnati. Queste donne sanno bene che l’ingiustizia non ha pudore e che spesso si traveste con gli abiti della parità. Continuamente ci ricordano che non basterà discutere di giustizia sociale o di fratellanza per trasformare il mondo in un luogo effettivamente ospitale per chiunque. Ci mettono di fronte al fatto che i programmi di buona volontà scivolano sulla superficie della storia senza inscriversi nella sua trama effettiva se non si spinge lo sguardo fino alle singolarità concrete e a ciò che le raggiunge effettivamente nel silenzio delle vite.
In ascolto di queste donne si impara l’urgenza di interrogare gli immaginari della differenza sessuale, perché in essi si nasconde spesso qualcosa di ingiusto. Sta qui la ragione di alcune contraddizioni del mondo, che sollevano domande irrisolte. Per esempio, come mai in un ordine civile che non ammette discriminazioni legate alla differenza sessuale le donne sono le prime a perdere il lavoro, vengono di solito pagate meno, spesso si ritrovano addosso la faticosa gestione della casa, si sentono poco adatte a compiti scientifici, difficilmente raggiungono posizioni apicali e, se subiscono violenza, tendono a colpevolizzarsi e a essere colpevolizzate? E come mai, in una versione ecclesiologica centrata sulla dignità battesimale, i legami tra i sessi risultano squilibrati nei tanti modi che conosciamo, oscillanti tra la demonizzazione e l’idealizzazione del femminile senza soluzione di continuità?
Non si può rispondere senza immergersi nel regno umbratile degli immaginari culturali in cui viene espressa la differenza sessuale.
Questo non è un suggerimento a distogliere l’attenzione dal piano del discorso esplicito e politico: è piuttosto un invito ad affinare lo sguardo, perché le “spiegazioni” valgono anche per il non-detto e per le passioni che lo agitano. In fondo, come ha ben mostrato lo psicologo e neuroscienziato Micheal Gazzaniga, tendiamo a produrre molte ragioni per giustificare i nostri sì e i nostri no alla vita, ma spesso si tratta di confabulazioni: le ragioni del fare stanno altrove, nascoste da discorsi di copertura messi in campo per governare lo squilibrio della differenza.
In questa complessità ci può orientare una sapienza femminile, riconoscibile nel pensiero filosofico della differenza (Diotima) e nelle teologie di genere del Coordinamento delle Teologhe Italiane (Cti).
Una rimozione antica e sempre nuova
La trama patriarcale che interrompe i legami giusti tra donne e uomini – giusti sul piano affettivo, interpretativo, giuridico, simbolico, pratico – è piena di quelle contraddizioni che l’inconscio si può permettere. Senza poter fare una disamina approfondita, sottolineiamo come in esso si instauri spesso un immaginario patriarcale che esalta e disprezza il femminile al contempo. La donna così disegnata è paradossalmente troppo angelica e troppo demoniaca per essere ascoltata in quello che ha da dire o per essere lasciata agire.
Pesa sul femminile l’impressione di un’incompatibilità naturale con il sacro e con lo spazio pubblico, incompatibilità che renderebbe le donne fuori posto in entrambi i contesti. Quest’incompatibilità è fatta di “troppo” e di “poco”: troppo materna, troppo affettiva, troppo relazionale e troppo corporea da un lato, ma anche poco razionale, poco sistematica, poco politica e poco spirituale dall’altro, la donna si fa irrilevante sul piano dello scambio concreto delle prospettive sul mondo, anche teologiche. Le rimozioni messe in atto vengono da questa trama contraddittoria, anche se spesso le argomentazioni si servono solo del versante luminoso, quello idealizzante. Le demonizzazioni sono taciute, perché non riconosciute o per strategia.
L’intreccio è comunque deleterio, perché neutralizza tutto ciò che mette in questione il senso unitario della realtà. Perché, si sa, è questo che fanno le donne: esprimono disagi e desideri che smascherano la parzialità delle tradizioni che non le hanno previste e che non le vogliono ancora incontrare e, in questo modo, aprono il discorso a molte altre differenze.
In questa prospettiva, le teologie delle donne sono disturbanti per la richiesta che portano con sé: chiedono di salvare il particolare. Parlano di corpi, di sentimenti, di oppressioni, di vita e di storie, forse perché sono meno preoccupate di ciò che va finendo e molto più attratte da ciò che va nascendo.
Così si incamminano per i sentieri dei processi pasquali che attraversano l’esistenza. In questo senso, non si tratta di teologie progressiste: non è il nuovo ad attrarre, ma la fioritura dell’essere.
Il sogno femminile non è solo per donne
Viene in mente ciò che la filosofa María Zambrano scrive a proposito delle rovine, in un articolo del 1949 scritto probabilmente a Roma, durante una delle tappe del lunghissimo esilio a cui la costrinse il regime franchista.
Davanti al Foro Romano, Zambrano avverte il pathos che si sprigiona dalle rovine. Per lei le rovine sono sempre una metafora della speranza che si ostina a darsi anche nelle crisi e nei fallimenti. Qualcosa di sacro rimane nell’aria: è la traccia del passato che si è perduto, ma è anche il canto di ciò che, vinto, non ha smesso di lanciare il proprio appello. Così l’edera, il muschio o l’erba che si fa strada tra le crepe delle pietre rimaste, che tanto hanno incantato Zambrano, sono anche immagine di quella speranza ostinata delle donne dentro le nostre comunità, che in fondo non è altro dal delirio della vita stessa che chiede espressamente di essere condivisa.
di Lucia Vantini
Docente di Filosofia e Teologia all’Istituto Superiore Scienze Religiose
e Studio Teologico di San Zeno di Verona.
Membro della Comunità filosofica Diotima.
Vicepresidente del Coordinamento Teologhe Italiane